Carol Rama. Il senso delle ossa e della carne
Lui parlava di cose molto semplici.
Diceva che è giusto che un gabbiano voli,
essendo nato per la libertà,
e che è suo dovere lasciar perdere
e scavalcare tutto ciò che intralcia,
che si oppone alla libertà,
vuoi superstizioni, vuoi antiche abitudini,
vuoi qualsiasi altra forma di schiavitù…
L’unica vera legge è quella che conduce alla libertà.
( Il gabbiano Jonathan Livingston)
Ironica e nevrotica.
Così mi appare Carol Rama sulle foto.
Mi soffermo sulla trecciolina, che le incornicia la testa come una piccola ma tenera corona di spine; nel viso spiccano due occhi fulgenti, dalla vasta profondità, il cui sguardo indica un’intelligenza sopra la norma, una genialità dosata e mai ostentata. Sembrano gli occhi di uno spirito antico, di “mille anni”, direbbe un mio caro amico, studioso delle filosofie buddiste e della reincarnazione.
Un’inquieta energia mi porta ad un livello superiore di critica domestica e penso al gabbiano Jonathan Livingston, colui il quale era fuori, contro, mai allineato, perché voleva conoscere ed approfondire il fine unico della sua esistenza di gabbiano: volare.
Ed in senso metaforico, attraverso procedure umanamente estetiche ed emotive, attraverso viaggi psichedelici simili a quelli di un Siddartha senza tempo, anche Carol cerca di volare… verso una conoscenza più profonda di sé stessa, di conseguenza del mondo.
Conosci tè stesso e conoscerai il mondo.
“…ho scoperto che dipingere mi liberava dall’angoscia che provavo per quello che succedeva alla mia famiglia, trasformandola in angoscia per tutto quello che la società indicava genericamente come trasgressione …. Quando dipingevo, Quando frequentavo l’aristocrazia. O l’ambiente dell’ippica, o quello della pittura. Ero fuori. Contro. Mai allineata.” (1988)
Non è una vita ad essere interessante, bensì come la si vive a trasformare una persona in personaggio.
In questo senso la Rama è personaggio. Per la capacità di idealizzare sotto forma di immagini e di plasmare ad elemento creativo gli eventi, gli oggetti, accomunando in un realismo classico cose ed emozioni che per varie ragioni vengono frettolosamente cestinate.
Ecco che mi ritrovo ad avere a che fare con una persona che diviene personaggio attraverso una velocissima sublimazione: tecnicamente un processo nel quale “agli eccitamenti eccessivi provenienti da alcune fonti della sessualità si apre un deflusso ed un’utilizzazione in altri campi, di modo che dalla predisposizione, di per sé pericolosa, risulta una intensificazione non disprezzabile della capacità di prestazioni psichiche. Una delle fonti dell’attività artistica và ricercata appunto qui; e, a seconda che tale sublimazione sia completa o incompleta, l’analisi dei caratteri di persone con grande talento, in particolare con predisposizioni artistiche, potrà rivelare un miscuglio, secondo tutte le proporzioni relative, tra capacità di prestazione, perversione, nevrosi…” (Freud, 1905)
Un prisma che brilla a 360 gradi, del quale non vi è una prima ed una ultima sfaccettatura, ma un insieme caotico ed al contempo semplicemente ordinato.
Benché stemperata da un buon grado di auto-ironia e da una raffinata fattura, la produzione artistica della Rama mi seduce ed è fuorviante.
Guardo uno dei primissimi acquerelli del 1936, titolato “Nonna Carolina”, nel quale si vede un’accozzaglia di protesi attorno ad una donna sofferente trasformarsi in una folla animata, un gruppo di amici cari ed intimi in visita alla degente. Sembra sarcasmo, invece è innocenza.
Partendo da un presente vissuto la Rama si rende inesorabile interprete degli eventi, che costruisce attraverso l’affronto diretto con la memoria ed il fato. In ogni periodo, anche in quelli tecnicamente vicini all’Arte Concreta ed all’Astrazione, le opere discutono, svelano, partecipano di un’attività intellettualmente critica e politica.
La mutazione temporale di stile, pur aumentando con l’esperienza la ricchezza pittorica dell’opera, non diminuisce però una sua complessa costruzione interiore, davanti alla quale si vorrebbero chiudere gli occhi.
Gli occhi interiori, s’intende, come quelli che sbirciano fuori dalle tele della Rama alla fine degli anni Sessanta.
Mi ha colpito molto una storia raccontata a Corrado Levi nel 1993: “… Quando avevo dodici anni io vado quasi tutti i giorni in una clinica privata a trovare una persona, e lì mi nasce una grande felicità perché non ho capito che ero in un ambiente manicomiale e la libertà che trovavo in queste persone con la lingua di fuori, le gambe spalancate o accucciate o in qualche modo: qualunque persona era ormai più importante della mia famiglia, ormai avevo abdicato e come rinunciato. Di lì nascono le mie prime opere.”
Oltre il giudizio universale è l’obiettività di una bambina che impara presto ad affrontare le fatiche del mondo e la crudeltà della vita. Nella maniera più saggia. Carol Rama non commenta, non paragona la vita altrui e l’altrui pensiero con il proprio e demanda all’istintivo dominio sul bene ed il male (e forse al proprio istinto di sopravvivenza) quella saggezza , così leale ed obiettiva, che spesso si trova in una ben più grande e lunga esperienza.
Questa filologia pragmatica e squillante l’ accompagna in ogni momento e sembra diventare, nel tempo, un immenso depuratore di spirito.
“… sono convinta di abitare bene le mie paure… se uno non ha paura è un imbecille…” (1983)
Lo sguardo dell’artista non giudica: espone. Scarpe e pellicce, feticci erotici od impasti matrici, impulsi corporei-fisiologici o protesi, relitti abbandonati senza grazia, Carol Rama sembra non porre veti alla libertà, soprattutto alla propria.
“Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma le opinioni che essi hanno delle cose” (Epitteto, Manuale, V)
Lo stato emotivo è passato al setaccio dalla logica più spudorata, in modo atavico, quasi preistorico.
La razionale accettazione dei limiti umani non ci aiuta forse a sconfiggere i nostri demoni? Ed a farci sentire, con le nostre debolezze, comunque partecipi attivi di un universale formicaio? Che altro modo avremmo per andare avanti e guardare al futuro se non fossimo indulgenti con il passato ed anche con il presente?
Ben vengano allora “il delirio e la paura” se sapientemente gestite con intelligenza per “… cercare di raggrupparle, farle diventare sempre più macroscopiche: non è un lavoro facile, ma è un lavoro che il pittore l’artista deve fare” (1988)
La paura fa paura. Ma la paura è un’idea. Forse è per questo che spaventa. Non sappiamo che forma abbia. E come tutte le cose ignote, la temiamo.
“… Io sono una persona impaurita. La mia sicurezza esiste solo di fronte a un foglio da riempire. Il lavoro è l’unico modo di togliermi le paure. La mia trasgressione è nella pittura.” (1992)
Carol Rama dà forma alla Paura, all’ Angoscia, all’Ansia. Le fa vivere e poi le analizza. Ne capisce la potenza: ma ne scopre anche i punti deboli. Così le attacca e vince. Molto semplicemente, ma molto efficacemente.
Essa stessa si propone, attraverso la pittura, agli altri.
“Io dipingo prima di tutto per guarirmi, se ho in più di trovare sincronizzata bene la persona che guarda ciò che faccio io, può anche succedere che possa guarire anche lei…” (1981)
Io ho colto il suo invito, mi sono ben sincronizzata ed ho capito il messaggio.
Con questa apertura mentale, vedo i dipinti in maniera diversa. Mi astengo dal giudizio esteriore e mi tuffo in una lettura puramente estetica.
Mi catturano di volta in volta le linee sinuose ed aggraziate definite da un caratteristico tratto leggero e vagamente retrò, appena accennato di colore laddove l’interesse maggiormente insiste; poi gli impasti materici corposi e densi, degni di una sapiente esperienza ed i bricolages, le gomme, figli di una Carol Rama-Ulisse che torna in patria dopo anni di guerre e di avventure. Ma in sostanza è sempre la stessa persona. Le basi forti delle sue convinzioni non sono mutate, imperterrite sino alla fine, ma l’esperienza è inevitabile e spesso cambia, se non il carattere, almeno l’umore ed il dinamismo sinergico dei rapporti socio-culturali. Sorvolare sulle esperienze del Mac; sull’arte povera e sul Dadaismo; conoscere e frequentare un mondo intenso, fatto di mille esperienze, teorie e ricerche, non influenzano l’artista, che pur dimostrando un’ampia conoscenza fatta di una cultura direttamente appresa, non ha bisogno di approfittare, giacchè il suo interiorismo nasce dallo specchio delle sue pulsioni. “… non ho avuto maestri pittori. Il senso del peccato è il mio maestro. ” (1981)
Più che “mettere” sulla tela, la Rama sembra togliere: la sua asciuttezza stilistica induce a pensare ad uno spolpamento delle generali illusioni etiche di una società che liberamente si esprime per veti e divieti, tralasciando di guardare la miseria poco elegante di cui l’essere umano è composto.
Di ossa e di carne. Così come, allegoricamente, è composto il mondo; parimenti di ossa e di carne.
Ciò che mangiamo, quello di cui ci serviamo e del quale spesso non abbiamo rispetto né considerazione.
Ne è un esempio il periodo “trash” che si sviluppa dopo gli anni Sessanta.
Pur richiamando un surrealismo un po’ dadaista e coinvolgendo, pittoricamente parlando, una passione povera definita dall’ “action” materica gentilmente controllata, Carol Rama ritorna, in maniera compulsiva, a sottolineare il dramma delle occlusioni diaboliche che generano il caos attraverso frammenti, scarti di ciò che è stato utile ed attribuendo loro una narrativa empatica, sibillinamente capace di espressione.
I temi affrontati spaziano dalla Guerra del Vietnam, alle bombe al Napalm, all’ecologia, alla mucca pazza.
Alcune opere degli anni Settanta mi raggelano: presentano dei sottili segni da lettore cardiaco, i cui battiti si sciolgono in una terribile linea piatta.
“I quadri del Napalm sono di subito dopo un lavoro che ho fatto su Luther King … queste immagini erano come delle persone bruciate e tormentate, sempre con un problema di corpo e di eros, con un materiale povero che era lo spray nero o a colori e con gli occhi incollati che venivano da certi imbalsamatori di Milano. Avevo sempre bisogno di creare una mutilazione, forse era una mutilazione dell’evento della guerra ma anche su di me.” (1993)
Ogni vissuto è lanciato senza pietà, con una naturalezza rabbiosa ed anticonformista. Ma il fascino, delicato e insinuante della loro composizione, declina ogni orrore e beatifica il messaggio. L’Arte è figlia del mondo e dote di pochi.
Pur parlando sempre di ossa e di carne, di materia fisica, intellettualmente emotiva o globalmente spirituale, l’eterna imperfezione si manifesta in una sorta di divina estensione del pensiero, codificato dalla solarità e dal positivismo che coordinano la sapienza di un Oracolo.
“Ciò che nella vita ci infastidisce, nell’immagine si gusta volentieri” (Goethe, Motto delle parabole, in Werke).
Carol Rama non ha ombre, né chiaroscuri. Si rivolge sempre direttamente. Attraverso il disegno esplicito, attraverso il colore puro, attraverso l’oggetto povero. Anche i titoli delle opere sono frequentemente esplicativi.
Se il suo essere propositiva indica una totale mancanza di “peli sulla lingua”, l’abile raffinatezza delinea una base ideologica profondamente solida; le sue, più che provocazioni, sono metafore che, esponendo in chiave ironica il terror vacuo dell’incertezza, recedono in campi più gestibili.
Quelli fatti dalle nostre ossa e dalla nostra, lasciva, lussuriosa, ma soprattutto concreta, carne.
“L’uomo saggio non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore” (Aristotele, Etica Nicomachea)
Vorrei finire qui. Ma c’è qualche cosa che mi manca. Apro una monografia, la sfoglio velocemente. Dove mi sono persa? Guardo altri due cataloghi, le sue foto. Ecco, combaciano tra di loro. Li leggo in parallelo. La mia facile posizione di utente a posteriori mi permette una visione completa: dai primi periodi a quelli più attuali. Decido di riprendere il filo che avevo perduto e mi trovo coinvolta in una lettura.
Scorro quindi la sua pittura come un immenso libro aperto, scritto da una lucida fermezza oltre ogni provinciale costrizione.
La gioia e la serenità che respirano le opere non hanno nulla di bieco e non avverto né sofferenza ne resistenza ad un espressionismo interiore che non sente il bisogno di ricorrere a simbologie iconografiche o a crudezze stilistiche, perché nasce spontaneo e non viene represso.
La concisione ermetica dell’immagine si concentra nel suo insieme; emerge la razionalità (e la volontà) che si concretizza nell’estetica. Impulsiva, ma precisa e focalizzante, Carol Rama ripudia gli inutili particolari, i virtuosismi accademici: mira dritta al suo obiettivo linguistico, che ha in sé un fine logico e razionale.
Se dovessi fare un paragone letterario, opterei per Shopenhauer.
Sembrerà strano accostare due diverse esperienze come le loro, ma Carol Rama ha in se lo stesso rigore, lo stesso logico cinismo, la stessa predisposizione per l’ovvietà del destino e per la saggia accettazione della realtà e dei limiti, la stessa razionale ricerca emotiva che trovo nella lettura dell’ “Eudemonologia” (o “Arte di essere felici”).
Termini come gioia e dolore, felicità ed infelicità, positivo e negativo, anche in Carol Rama sono illusori.
A ben vedere (“se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione”) si può davvero concludere che ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo.
Chi conosce un grande dolore meglio apprezza la gioia e ne potrà godere, rispetto a chi “sbaglia” perché non gode della propria serenità, piccola o grande che sia, desiderando inutilmente una felicità che non troverà mai.
La miglior felicità in fin dei conti si trova nell’accettare la propria esistenza, tentando di evitare, tra i mali, il peggiore.
Le opere di Carol Rama raccolgono feticci comuni della vita e dell’ esperienza: l’artista ci propone ciò che spesso e volentieri si viene indotti a non vedere, o ciò che non abbiamo il coraggio di confessare.
Oggetti. Situazioni. Desideri. Sogni. Affabilmente dobbiamo prenderne atto. Ed accettare vuol dire rispettare, approfondire, goderne e farne godere gli altri.
Questa necessità di comunicare sembra essere sempre stata presente ed impellente, tanto che la sua adesione al Mac, nei primi anni Cinquanta, dura ben poco.
Non la trovo arrogante o provocatoria, ma capisco quanto il sarcasmo possa averla protetta.
Non mi indispettisce perché ha ragione.
Crescendo, modificando la propria prospettiva, evolvendosi ed adattandosi alla mutevolezza del tempo, Carol Rama mi dice che non ha “imparato” a fare l’artista, lo è sempre stata.
Manuela Boscolo
Carolrama.un'artista fuori dalle righe testo di babacattiva