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(Luce fioca. Una figura sola al centro del palco. Silenzio. Poi, quasi con sarcasmo dolce-amaro:)
Ei.
Ciao, Alveo.
Sì, sto parlando con te.
Con te, che pensavi di sapere tutto.
Tu che ogni volta che qualcuno ti tendeva una mano…
...tu la rifiutavi. Sempre.
Come se chiedere aiuto fosse una colpa. Come se ascoltare un consiglio fosse una debolezza.
(Una pausa. Guarda in basso. Un mezzo sorriso, amaro.)
Quante volte hai fatto di testa tua, eh?
E quante volte... hai sbagliato.
Ma non un po’. No no. Proprio in grande.
Col botto. Con tutta la presunzione di chi si sente invincibile,
e poi si ritrova a raccogliere i cocci per terra.
A mani nude.
(Silenzio. Sguardo lontano.)
Sai che per un po’ ti ho odiato?
Sì, odiato.
Perché io ero lì, a guardarti cadere, e mi chiedevo:
“Ma perché? Perché non cambia? Perché non impara mai?”
(Momento di sincerità, la voce si abbassa.)
E invece…
Invece proprio cadendo hai imparato.
Non subito, no. Ma ogni caduta ti ha lasciato un segno,
una crepa in quella corazza di certezze.
E da lì… da lì è passata la luce.
Da lì hai iniziato a diventare qualcosa di diverso.
Di più vero.
(Pausa. Guarda il pubblico. Un respiro profondo.)
Ora lo so.
Tutto quello sbagliare, quel voler fare di testa tua,
non era solo orgoglio. Era bisogno.
Avevi bisogno di toccare il fondo per capire cosa significa davvero risalire.
Hai imparato a rimetterti in piedi, da solo.
A volte a fatica. A volte tremando.
Ma ogni volta, ti sei rialzato.
(E ora, con calma, quasi con affetto.)
Perciò... grazie.
Sì, grazie davvero, Alveo.
Per ogni errore, ogni inciampo, ogni testa dura.
Perché senza tutte quelle cadute, oggi io non sarei qui.
Non sarei... me.
(Luce che si spegne lentamente. Silenzio.)