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Prendo la borsa straripante di volantini, esco, imbuco le lettere infrangendo i piedi contro la solita sabbia, portata dallo scirocco.
Ma ciò che mi è successo alla fine delle mie ore di volantinaggio è ciò che non avrei mai voluto augurarmi, nemmeno per gioco o per ironia della sorte.
Caruso, questa volta, è sceso dal furgone per indicarmi i volantini da prendere. Mi sono domandata “perché?” dato che le altre volte è stato sempre comodamente seduto sul sedile e, a ogni mia richiesta, alzava il volume della radio.
Purtroppo, la risposta non ha tardato ad arrivare.
Mentre ero piegata a raccogliere tutti i volantini indicatomi, facendoli scivolare nel sacchetto, mi toccò i glutei. Non so per quanti secondi, cinque o dieci? Che importanza ha?
Mi ha palpeggiato. Quel porco. Non l’ha fatto per sbaglio. Ho immaginato il suo sorriso deformato colmo di depravazione e di piacere nel vedermi così debole e indifesa, la sua lingua sguinzagliata tra i denti, la mano destra che stringeva la sigaretta, quasi a dividerla a metà, in quell’atto di godimento.
Ero totalmente stordita e rigida nei miei movimenti come se un intero blocco di ghiaccio fosse caduto dal cielo e mi avesse trafitta.
Il cuore mi si fermò in quel momento. Avevo bisogno di un defibrillatore per farlo ripartire. Dei dottori che con una fune mi tirassero l’anima dal vuoto in cui stava sprofondando. “Non respirerò, non respirerò” ho pensato mentre lui, dopo la violenza e vedendomi tanto esitante, mi disse “Ora che vuoi? Levati che non ti posso fare altro. Il lavoro ce l’hai e vattene subito!” -.
Così, ancora per metà rannicchiata sulle cosce, lo vidi chiudere lo sportello e mettere in moto il furgone, imprecando “Sta poco di buono!”.
Mi sono rialzata e mi sono trascinata fino a casa con fatica e con il sacchetto stretto stretto tra le dita delle mani. Né i condomini che vivono nella palazzina né mia madre che si era alzata da poco si sono accorti del sentimento nuovo che in me cresceva.