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Non so se qualcuno ricordi i floppy disk. Probabilmente pochi, dato che persino le ditte di informatica se ne sono dimenticate. Su uno di quelli, comunque, ho ritrovato questo racconto del 1997. La sensazione è stata un po' come scoprire la tomba di un faraone egizio, trovare sotto una pietra la chiave che la apre e accorgersi che s'ingrippa, rischia di rompersi, ma, se la infili nella serratura, ancora gira (direte che le tombe nell'antico Egitto non si aprivano con la chiave... vero. E non c'erano neanche i floppy disk). Questo racconto viene da un'epoca che sta a quella odierna come i geroglifici stanno all'alfabeto latino. Niente social, niente siti di scrittura, niente videoracconti, niente "se dura più di un scroll non va bene" (purtroppo, non sta dentro un solo testo), niente like ecc. Il web c'era, più o meno... come i regni predinastici o la dinastia 00 nella terra del Nilo.
Che si fa, allora, si entra? Sì perchè è difficile resistere alla tentazione e a quel paese le maledizioni. Meglio non toccare niente, però, brutture comprese. Il file non si lascia modificare. E poi... non si sa mai.
Patti Iugulatori
"Ralph!"
Ralph Redcomb passò accanto a sua moglie a testa bassa, levando il pugno, e quel gesto bastò a troncare sul nascere la tenue protesta di Beverly Forrest, da tre anni Beverly Redcomb.
Ralph, trentaquattro anni, giornalista disoccupato, alcolizzato, "nuovo povero" secondo le statistiche, attraversò la stanza con passo incerto, raggiunse la branda e si lasciò cadere come un albero abbattuto, affondando la faccia nel cuscino. Dopo pochi secondi russava già sonoramente ed un rivolo sottile di bava gli colava dalla bocca semiaperta.
Beverly chiuse la porta e, per la millesima volta, si chiese come potesse essere successo.
Come sempre, in questi casi, lo sguardo le corse, in un gesto che odiava e che le era diventato abituale, alla foto del loro matrimonio.
Era appesa alla parete con una puntina, da quando Ralph aveva venduto la cornice d'argento, ed era l'unica decorazione sull'intonaco biancastro, a parte le macchie, ovviamente. Loro due avevano un'aria tremendamente seria e tremendamente felice allo stesso tempo: l'aria di due persone che hanno appena intrapreso un viaggio duro, ma che conduce in un posto meraviglioso.
Si affacciò alla finestra e guardò giù, in strada.
Un gruppo di spacciatori aspettava all'angolo, fumando ed ascoltando musica. Di tanto in tanto qualcuno si avvicinava, le mani si agitavano in movimenti bruschi, poi il cliente si allontanava con passo rapido. A volte, il più grosso degli spacciatori mostrava i muscoli, sotto il giubbotto di pelle, ma, di solito, non succedeva niente. In ogni caso, le sirene delle volanti erano lontane come voci di bambini sperduti nella foresta.
L'odore acre delle immondizie si mescolava col respiro caldo dell'asfalto che rilasciava il calore accumulato nella giornata estiva, col fumo dolciastro della droga, coi gas di scarico dei pochi diesel sconquassati e puzzolenti.
Le luci erano rare (i lampioni venivano sistematicamente rotti e, alla fine, il comune aveva lasciato perdere). Del resto, alla maggior parte degli abitanti del quartiere il buio faceva comodo.
Un falò d’immondizie bruciava in un bidone poco lontano.
Accanto, una prostituta che doveva essere ammalata di AIDS ancheggiava in una macabra parodia della seduzione.
Beverly si mise la testa fra le mani, cercando di non pensare.
Un pipistrello le sfrecciò vicino, con un lieve fruscio delle ali membranose. Beverly si stupì vagamente. Non credeva che potessero abitare degli animali in quel quartiere, anche se si trattava di pipistrelli. Forse, quello in particolare aveva pagato il pizzo al racket degli alloggi.
Ralph rantolò nel sonno.
Si strozzerà - pensò Beverly - si soffocherà nel suo vomito e io non sentirò perché dormirò, e dormirò perché sono stanca. Sì, sono stanca. Sono così stanca.
Il pipistrello volò via. Un volo netto, preciso. Non il solito moto circolare dei pipistrelli. Un volo che aveva una meta. Forse un posto lontano, migliore. Scomparve.
E' male quello che hai pensato, Beverly.
Sì, era male. Se possiamo peccare in pensieri, parole, opere ed omissioni era male. Ma sua madre diceva che il male non è in ciò che si desidera, ma in ciò che si è disposti a fare per ottenerlo.
Del resto, se le cose fossero state diverse, il Paradiso sarebbe stato vuoto, o quasi.
Al massimo ci sarebbero state le persone come...
Ralph.
Sì, ecco, in Paradiso ci sarebbero state le persone come il Ralph Redcomb di quattro anni prima, quello che aveva regalato a Beverly l'anello di fidanzamento. In argento, con un diamante incastonato. Che glielo aveva posto, adagiato su un cuscinetto di raso bianco, in una scatoletta blu. Che glielo aveva dato con le mai tremanti, come se stesse per porgerle una bomba ad orologeria.
Già, se Ralph fosse morto quattro anni prima, sarebbe andato sicuramente in Paradiso. Naturalmente, Beverly aveva ancora quell'anello e, naturalmente, Ralph lo ignorava. Lei lo aveva nascosto dentro il materasso, la notte dopo che lui aveva venduto la cornice d'argento della foto ricordo delle loro nozze.
Quando Beverly riusciva ad addormentarsi, sperava sempre che quell'anello l'accompagnasse in un paese di sogno dove non c'erano né mariti licenziati, né superalcolici, né crisi economica, né drogati.
Con quel sogno in mente, si assopì.
Fu svegliata da uno strattone violento ai capelli che la costrinse a voltare la testa e si trovò a fissare suo marito che la guardava con un sorriso stolido e malvagio sulle labbra gonfie.
"No, no Ralph - protestò debolmente - non di nuovo..." Ma sapeva che era inutile, che era proprio quello che lui voleva: sentirla piangere, farle male, ferirla.
Tirandole i lunghi capelli neri, Ralph Redcomb gettò sua moglie sulla branda.
L'alba, nei quartieri alti, era più bella che in periferia: sembrava meno polverosa, meno sporca.
La luce nascente accendeva migliaia di fuochi nelle vetrine, sui muri dei grattacieli in vetrocemento, sulle carrozzerie delle auto parcheggiate.
Beverly camminava verso il ristorante cinese. No, non verso il ristorante, verso il vicolo lì accanto. Il vincolo che sapeva di grasso, olio rifritto, spezie inacidite ed avanzi. Un pezzetto di casa sua trapiantato in centro. Il vicolo dove cercavano donne di fatica.
Sotto le suole consumate, Beverly avvertiva già l'asfalto che andava scaldandosi.... ed erano le scarpe migliori che aveva.
Camminava ad occhi bassi, tentando di non scorgere, negli occhi dei pochi passanti che incrociava, la consapevolezza del proprio stato.
Avevano passeggiato spesso, lei e Ralph, per quelle vie, prima di sposarsi. Una volta, lui era entrato in uno di quei negozi e le aveva comprato una pelliccia (sintetica, Ralph era troppo sensibile per comprare pellicce vere), poi le aveva suggerito di abbandonare il suo posto di segretaria e, infine, le aveva parlato della casa che avrebbero avuto, dei vicini con cui avrebbero giocato a carte, nelle serate estive, sotto il portico, dell'asilo cui avrebbero mandato i loro figli.
Si domandò che fine avesse fatto quella pelliccia. Porsi simili domande la faceva star male, ma non poteva evitarlo, così come non poteva evitare di guardare la foto del loro matrimonio. La pelliccia era stata la prima cosa che Ralph aveva venduto, dopo aver perso il posto, promettendole che, presto, ne avrebbe comprata una migliore.
Ci credeva.
Era questo il guaio. Ralph credeva.
Credeva che avrebbe trovato un altro impiego, credeva che avrebbe guadagnato di più, che gli amici, i suoi vecchi, cari, fedeli amici, lo avrebbero aiutato, che presto loro due avrebbero avuto dei figli e che sarebbero stati una famiglia serena. Con qualche guaio, certo, perché a chi non capitano i guai, ma, tutto sommato, serena.
E perché no? Non c'era niente di male in questo, (il male non è in ciò che desideri...) e Ralph era pieno di energia, generoso, disponibile (…ma in ciò che sei disposto a fare per ottenerlo).
Ecco, forse era questo, il guaio. C'erano cose che Ralph non era disposto a fare. Neppure ora, per quanto strano potesse sembrare, neppure quando aveva bevuto, neppure quando era preso da quella smania di distruzione cui, sempre più spesso, negli ultimi tempi, s'abbandonava, Ralph Redcomb era disposto a fare certe cose. Non avrebbe mai spacciato. Non avrebbe mai fatto male ad un bambino, o ad un vecchio. Non avrebbe mai buttato una cartaccia per strada.
Uno stridore di gomme distolse Beverly dalle sue meditazioni ed Amy Asquit scelse da una jeep nera.
Per un attimo, Beverly pensò che Amy era venuta a chiamarla perché doveva giocare la partita di pallavolo per la squadra del liceo e lei, come al solito, era in ritardo, poi i gioielli alle mani di Amy scintillarono al sole e l'illusione svanì.
"Beverly" bisbigliò Amy.
Senza accorgersene, Beverly Redcomb cominciò silenziosamente a piangere.
Più tardi, al ristorante, dopo aver consumato - no, dopo aver divorato la colazione, e con quanta voracità si era gettata sui croissant, odiandosi, per questo, ma non riuscendo a trattenersi - Beverly parlava.
Parlava di come aveva conosciuto Ralph e di come si erano sposati, mentre il mondo intero pareva benedirli. Di come lui aveva perso il lavoro. Di come avevano perso la casa. Gli amici. I parenti. Il rispetto degli altri e per sé stessi. Di come si fossero persi l'un l'altra...
Parlava senza reticenze, così come si riesce a fare con gli amici d'infanzia e come si disimpara col passare degli anni. Parlava con Amy cosi come avevano parlato molte volte, la sera, a bassa voce, tornando dalle partite di pallavolo, quando sapevano che nessuno le ascoltava, protette dall'ombra amichevole degli olmi che fiancheggiavano la strada di casa.
Quando ebbe finito, si accorse che Amy la stava fissando e, improvvisamente, osservando il modo in cui la guardava, Beverly comprese quanto Amy fosse cambiata.
Oh, certo, anche lei, Bevvie, era mutata, tanto che si era stupita che Amy l'avesse riconosciuta subito, ma Amy era cambiata di più, in un modo forse più sottile e più profondo, che aveva trasformato la ragazza che lei conosceva nella donna che le stava di fronte.
Bevvie comprese che tra le due Amy, la Amy di allora e la Amy di ora, si estendeva una vasta terra di nessuno, bianca ed interrogativa come una terra sconosciuta su una vecchia mappa.
Su quello spazio, come avrebbero potuto fare gli antichi cartografi, si sarebbe, forse, potuto scrivere "hic sunt leones".
Fu Amy a rompere il silenzio.
"Vorrei che tu ti rivolgessi a queste persone" disse allungandole un cartoncino.
Era un biglietto da visita, molto fine, elegante.
Diceva "Claquesous & Kurtz Antiquari. 27 Lincoln Avenue."
"Hai ancora qualcosa di valore, vero, Bevvie?" soggiunse Amy.
Beverly accennò ad una protesta, ma l'amica la zitti.
"Non sono solo gioiellieri, loro... è il solo modo che ho di aiutarti.
Le prese una mano e gliela strinse. Una stretta breve, intensa
"Pensaci, ti prego, promettimi solo questo, pensaci".
Senza aggiungere altro, Amy si alzò.
Beverly la guardò e, di nuovo, ebbe la percezione netta e dolorosa dello scorrere del tempo. Vide gli anni materializzarsi nell'andatura di Amy. Sicura, decisa, consapevole.
Non si era voltata indietro.
Non aveva degnato di uno sguardo la multa sul cruscotto.
Nonostante il caldo che già cominciava a farsi sentire, non si era nemmeno tolta il foulard di Armani che portava al collo.
La osservò a lungo e solo dopo molto tempo si accorse che, oltre al denaro per il conto, Amy aveva lasciato una banconota da cento dollari.
Più tardi, al parco, dove la notte era arrivata prima che altrove, scendendo dalle chiome degli alberi, folte, nell'estate calda.
Beverly era seduta su una panchina, in un angolo isolato, scelto con quell'istinto che i poveri hanno per i luoghi appartati, dove possono dormire e, dormendo, dimenticare ed essere dimenticati.
Accanto a lei, al suolo, il giornale degli annunci economici giaceva sulla terra battuta del vialetto, agitando, nelle deboli folate della brezza serale, le pagine segnate da tratti di matita.
Quel giornale era vissuto come un campo di battaglia, segnato da molteplici sconfitte.
Beverly rovesciò la testa, chiudendo gli occhi, poi si levò le scarpe ed appoggiò sulla panchina i piedi scalzi, doloranti, e prese a massaggiarli.
"Almeno, ora so come si sente una passeggiatrice" mormorò amaramente.
C'era sempre qualcun altro.
Qualcuno che era un uomo, o che era più giovane, o più esperto, o più qualificato, o più colto.
Ogni volta c'era un motivo diverso che le impediva di ottenere il lavoro e, ogni, volta, era più difficile ricominciare e chiedere di nuovo.
A rifletterci, a contare i "no" ricevuti, veniva da pensare, lì, nella penombra, che lei non trovava lavoro perché era stato deciso, perché (loro) avevano così deciso.
"Ti stai lasciando andare, Bevvie"
Sì, forse era vero, ma perché lei non poteva lasciarsi andare, mentre tutto intorno a lei andava a rotoli?
Perché non poteva dare la colpa alla società, al destino, e prendersela comoda?
Perché non poteva anche lei avere la sua brava psicosi?
Perché non poteva dare la colpa di tutto a loro?
Sarebbe stato tutto più facile, avrebbe potuto seguire i consigli di Amy, andare da quegli usurai, dare loro l'anello ed infischiarsene, anche se ciò era come... come ammettere che...
(con questo anello io ti sposo
un anello per domarli e nel buio incatenarli)
Qualcuno la stava osservando.
Se ne accorse dal fruscio delle foglie cadute, là dove i piedi dello sconosciuto le avevano smosse. Spalancò gli occhi guardandosi intorno, spaventata, e lo vide.
Poteva avere cinquant'anni e la pelata brillava nella luce ormai inesistente del tramonto.
Beverly si rimise la scarpe e si alzò dalla panchina, arretrando nello stesso tempo di qualche passo. L'uomo la guardò per un attimo e si allontanò quasi scappando, ma, in quell'attimo, osservando quell'inconfondibile aria colpevole da marito che si è concesso una scappatella, Bevvie capì esattamente che cosa quell'uomo aveva pensato.
"Mi ha presa per una..."
E, in fondo, tu non stavi per vendere...
"Un anello! Solo un maledetto, dannatissimo anello!".
Si accorse di avere urlato e, quasi fuggendo, andò via.
"E questo cos'è?" biascicò Ralph, osservando la bistecca nel piatto.
"Filetto", rispose Beverly.
"Filetto", ripeté pensosamente Ralph, quasi assaporando la parola come se essa stessa fosse un cibo prelibato "E da quando..." aggiunse, poi si fermò.
Lentamente, quasi con cautela, impugnò coltello e forchetta e si tagliò un boccone.
(com'erano sporche, quelle mani. Da quanto non si lavava le mani, prima di mettersi a tavola? Da quanto aveva persino dimenticato che prima di mettersi a tavola ci si deve lavare le mani?)
Beverly osservò suo marito addentare il boccone, masticarlo con lenti, ampi movimenti delle mascelle coperte di barba incolta. Vide il boccone scendergli lentamente lungo la gola magra, rugosa, che doveva ormai essere bruciata dai liquori e riceveva quella carne come un'ospite importante ed inattesa.
Improvvisamente, senza nessun preavviso, gli occhi di Ralph s’inumidirono e grossi lacrimoni presero a solcargli le guance scavate. Brillando, sgorgavano con naturalezza dagli occhi verdi del marito, seguivano la cavità mobile delle guance o i bordi del naso affilato, si districavano sul mento aguzzo e non rasato, già lievemente umido del sugo della bistecca, poi, con importanza e gravità, cadevano.
Oh, non c'era che dire, suo marito piangeva dannatamente bene, come uno che è abituato, come uno che si guadagna da vivere piangendo. Con quei lacrimoni gli era certo facile commuovere qualche vecchia signora dal cuore tenero. E intanto, però, mangiava. Le gote erano umide e si muovevano. "Oh, Bevvie tesoro..." farfugliò lui, e intanto addentava un altro boccone, la guardava, piangeva e però mangiava.
"Hai fatto questo per me... per noi, voglio dire, amore.."
Seguì un altro boccone, questo masticato rapidamente, ferocemente.
"Grazie, tesoro, grazie, sei arrivata a questo... per me... a questo"
Un altro boccone, grosso.
E' questo quello che pensa? Questo, come quel tizio, ieri, al parco? E' questo quello che vuole? Quello che si aspetta?
"Amore, grazie, grazie..."
Un nuovo boccone, così grande che sembrava impossibile potesse entrare nella bocca magra di Ralph Redcomb.
Non te l'ha chiesto, ma è quello, ciò che si aspetta da te. Non te l'ha chiesto perché lui è così puro, così buono, nonostante tutto. Pensa che sia orribile chiedere una cosa del genere alla propria donna, ma intanto ne approfitta e mangia.
"Per questo hai fatto così tardi, ieri sera, amore, per..."
Si interruppe, non riuscendo a trangugiare quel pezzo di carne.
"Grazie.."
Così puro, così buono e intanto mangia.
"Io... per me"
A te è andato tutto di traverso, praticamente non hai toccato cibo e lui mangia
"Amore"
A lui non interessa perché lui mangia. Ti chiama amore, tesoro e scemenze del genere e mangia. Piange e mangia. Ti ha rovinato la vita e mangia.
"Grazie"
Sì. Lui mangia, mangia, mangia, mangia.
"Puoi anche non farlo, ma, se vuoi, fallo, e sappi che non c'è niente di male e, anche se ci fosse, non ci sono alternative".
Cosi mormorando, Beverly entrò e si chiuse la porta alle spalle.
Le tendine di velluto bordò chiusero fuori gran parte della luce del giorno ed un'altra luce la sostituì.
Una luce che calava morbidamente dalle lampade in ottone e si rifletteva, con mille baluginii, sui gioielli nelle bacheche.
Erano splendidi, tutti, ma Bevvie ebbe la certezza che fossero niente rispetto a quelli che Claquesous e Kurtz dovevano tenere al sicuro, in cassaforte.
Ebbe il tempo di dare una rapida occhiata intorno, cogliendo una fugace visione dei mobili in mogano e raso e delle copie di Tiziano appese alle pareti, che, avanzando silenzioso sullo spesso tappeto persiano, un uomo in completo blu notte le venne incontro.
Dal profumo che lo precedeva, dal sorriso candido (Bevvie ebbe la curiosa idea che i denti dell'uomo fossero anch'essi artificiali come i gioielli esposti) e dalla "erre" leggermente moscia, Beverly comprese di trovarsi di fronte al signor Claquesous.
"In che cosa posso servirla, madame?"
Beverly tirò un breve, ma profondo respiro.
Quella gentilezza così affettata sarebbe sembrata quasi caricaturale (e, in effetti, Beverly ebbe la tentazione di ribattere "Dimmi quanto puoi danni e facciamola finita") se non fosse stato per l'uomo che la usava. Claquesous doveva costituire per il negozio un'attrattiva quasi pari a quella rappresentata dai gioielli, almeno per le clienti. Osservando il fisico atletico e i lineamenti aristocratici dell'uomo che le stava di fronte, Bevvie pensò che le visite di Amy alla gioielleria dovevano essere particolarmente lunghe, e si accorse che anche lei, potendo, avrebbe fatto altrettanto.
Invece, si limitò a dire: "Avrei bisogno di una stima". Nello stesso tempo, estrasse dalla borsa una scatoletta e l'aprì. Claquesous osservò l'anello con aria professionale per un paio di secondi.
Beverly lo osservò con lui e, per la prima volta, lo vide per quello che era: un gingillo buono per un giovane squattrinato e di belle speranze. Niente che potesse interessare uno come Claquesous. Prima che quest'ultimo risollevasse i suoi occhi azzurri su di lei, Beverly soggiunse: "la Signora Amy Berrington mi ha riferito che siete esperti stimatori".
Il sorriso dell'uomo si allargò e Beverly comprese che quei denti erano veri, tanto candidi quanto forti. Denti che potevano far male.
"La nostra cara signora Berrington è stata lievemente imprecisa. Il vero esperto è il mio socio, il signor Lazarus Kurtz. Purtroppo, egli, al momento, è assente, ma sono certo che sarà lieto di offrire i suoi servigi a una signora così incantevole. Se desidera, posso fissarle un appuntamento, madame...?"
"Red... Forrest. Beverly Forrest"
Giusto. Non sei più la signora Redcomb, ora.
"Bene, madame Forrest ripeté Claquesous Mi chiami pure Roland, al suo servizio. Posso riferire al signor Kurtz che venerdì sera riceverà la visita di un'affascinante signora e del suo splendido gioiello?" Nello stesso tempo, porse a Beverly un biglietto da visita.
Beverly annuì.
"A presto, madame"
Beverly gli voltò le spalle ed uscì.
Una volta fuori, camminò diritta, senza voltarsi, ma con la netta sensazione che Claquesous stesse osservandola da dietro le tende. Di certo, sorrideva ancora.
Non ci posso credere.
E invece farai meglio a crederci, e alla svelta, anche, perché stai per cacciarti in un bel guaio. Non poteva essere.
Semplicemente non poteva razionalmente essere che gente come quella attribuisse un valore al suo fondo di bottiglia.
Nonostante il caldo, Beverly rabbrividì.
In quale giro stava per entrare? Prostituzione? Droga?
Amy era stata sua amica, la sua migliore amica, non avrebbe lasciato che le accadesse nulla di male, Amy...
Amy le aveva dato un vestito decente, delle scarpe nuove e l'aveva pettinata, dopo averla ricevuta nella sua villa, nelle ore morte della tarda mattinata.
"Sembra ancora che tu abbia diciassette anni, Bevvie, ma non puoi entrare nella gioielleria di Clacquesous con quegli stracci" aveva detto.
Nella grande casa semideserta si udiva solo il ronzio della lucidatrice, mentre la donna di servizio lustrava i corridoi.
A Bevvie sarebbe bastato avere un posto come quello, sarebbe stato sufficiente essere una donna di servizio in qualche residenza signorile di un mago della borsa, ma non le era stato concesso perché (loro).
Scacciò quel pensiero che, stranamente, negli ultimi giorni le tornava alla mente con l'insistenza querula di un questuante.
Si concentrò sui movimenti agili delle mani di Amy, ricordando la ragazza che voleva fare la parrucchiera ed osservando nello specchio la donna che aveva sposato Woodrow Otis Berrington III. Amy la pettinava con mani esperte, con mani che sembravano essersi esercitate costantemente per tutti quegli anni.
Forse Amy si era davvero esercitata, perché, con tutti i suoi soldi, non era riuscita a coronare il suo vecchio sogno. Forse lo aveva trasformato in un hobby ed a Beverly sembrava di vederla mentre pettinava le signore dell'alta società, quasi ingannando, con quello che doveva sembrare un gioco, un bisogno profondo.
"Dì che ti mando io" aveva detto Amy.
Beverly aveva annuito.
Amy doveva aver interpretato diversamente il suo gesto, perché aveva aggiunto: "So quello che pensi" e, subito dopo: "Credi che potrei fare di più?"
Beverly stava per rispondere qualcosa - anche se non sapeva bene cosa - quando Amy aveva proseguito: "Woody non me lo permetterebbe. Non lo farebbe perché suo padre glielo proibirebbe, e suo padre deve probirglielo perché l'azienda...."
Si era interrotta, e Beverly capì che ora era Amy, a confessarsi, così come lei si era confessata tre giorni prima, al ristorante. Capì che una confessione doveva rappresentare un evento raro per quella donna che, mentre la pettinava, indossava un tallieur, morbide scarpe italiane ed un foulard di seta a1 collo. Capì anche che, come confessore, doveva tacere, ascoltare e, se possibile, aiutare, anche se non aveva la minima idea di come potesse aiutare Amy Berrington.
"Non devi aver paura, Bevvie, loro... non chiedono mai troppo. Sarebbe stupido, capisci. Ti chiedono tutto quello che possono chiederti, tutto quello che puoi dare, ma non vanno mai oltre. E poi sono sempre cauti. Domandano una cosa per volta, per gradi, tanto che non te ne accorgi nemmeno. E alla fine, ti portano via tutto e ti accorgi che non rimane più niente..." .
Si erano guardate, nello specchio, ciascuna vedendo cose che non avrebbe mai pensato o voluto vedere.
Beverly aveva rinunciato a parlare.
Arrivò alla villetta di Kurtz senza sapere bene come, nella calda ed umida sera estiva, nel cuore di un quartiere composto esclusivamente da villette familiari con giardino, che le suscitarono la curiosa sensazione di trovarsi dentro ad una scenografia, o ad un depliant di un'agenzia immobiliare. Immaginò i papà che, al sabato mattina, curavano il prato, mentre, nel tepore della giornata, gruppi di bambini biondi giocavano sull'erba. Di certo, quelle famiglie si radunavano sotto il portico, nelle sere d'estate, per giocare a carte; le mamme portavano i bambini all'asilo lì accanto e, il sabato mattina, facevi sempre tardi perché, uscendo a fare la spesa, incontravi un sacco di amici con cui scambiare quattro chiacchiere. Probabilmente avevano un cane che portava giornale e pantofole al babbo, quando tornava dal lavoro, un Dick o Full o Tom che era un vero piacere portare ai giardinetti. Dovevano avere anche una familiare, che usavano per i week-end per recarsi fuori porta, sulla quale salivano cantando allegre canzoni...
La sensazione di irrealtà era così forte che Beverly non si sarebbe stupita se un poliziotto, comparso all'improvviso sulla via deserta, fiancheggiata da filari di olmi, le avesse cortesemente chiesto di allontanarsi perché il regista non gradiva la presenza di comparse così spaesate che, con la loro aria smani, rovinavano l'allegra compostezza della scena.
Osservò il biglietto consegnatole da Claquesous e la targa in ottone sulla colonnina di pietra alla sua destra, all'ingresso di una casa che differiva leggermente dalle altre solo perché era circondata da alberi più alti, che la rendevano più ombrosa, più raccolta.
Le parole sulla targa e sul biglietto erano identiche, come i caratteri, del resto.
Dicevano: "Lazarus Kuriz. Cartomante. Chiromante. Astrologo. Riceve solo per appuntamento."
Percorse il vialetto cosparso di ghiaia bianca, che riluceva debolmente alla luce lunare, ascoltando il tenue scricchiolio dei suoi passi.
Un'altra differenza con le villette vicine (o, meglio, con l'immagine che si era fatta di quelle villette): nessun cane fedele. Nessun Fido o Dick o Full che portasse le pantofole ed il giornale al padrone, salutasse scodinzolando il lattaio ed abbaiasse agli estranei.
Arrivò all'ingresso della villetta. Le tende erano tirate, come palpebre abbassate per un placido sonno.
Il campanello non c'era. Al suo posto, un piccolo battente in ottone, raffigurante una testa di cane (un cane c'era, dopotutto!) reggeva un anello tra le fauci. Sopra, una scritta, incisa su una fascetta, anch'essa in ottone, in foggia di pergamena: "Entrate liberamente, andate in pace, e lasciate un poco della felicità che Vi accompagna".
Beverly afferrò l'anello del battente, poi esitò.
Ho già letto questa frase, da qualche parte, ma dove?
Picchiò.
Lazarus Kurtz. Gioielliere, chiromante, usuraio...
E cos'altro?
Un ometto magro e dai lineamenti affilati, pallido, con l'aspetto dell'impiegatuccio che ci aspetta di vedere maltrattato dal capufficio. Gli occhi erano celati da spesse lenti da miope.
Indossava un abito scuro, di taglio classico: giacca e pantaloni neri, cravatta nera, su camicia colore della cenere bagnata.
Appena la vide, si inchinò leggermente. Aveva i capelli neri, lisci ed era almeno una ventina di centimetri più basso di Beverly.
"Prego, si accomodi, Miss Forrest"
Aveva un lieve accento straniero, europeo, forse.
Beverly esitò.
Ebbe l'impressione che accettare l'invito e varcare quella soglia rivestisse un'importanza capitale, vitale, che fosse come, come...
Il pensiero le sfuggi e lei lo lasciò andare.
Entrò.
Sulle pareti erano dipinti pentacoli, simboli astrologici ed altri che non riconobbe, mentre gli scaffali che occupavano due pareti della stanza erano piene di strani flaconi.
Di fronte a lei, una scala conduceva al piano superiore, mentre, alla sua destra, una porta in vetri affumicati conduceva ad un'altra camera.
Kurtz dovette notare che Beverly osservava la stanza, perché si affrettò ad, affermare: "Perdoni tutta questa paccottiglia, ma la maggior parte dei miei clienti rimarrebbe delusa non vedendola, e io non posso certo deluderli. La verità è che siamo più vicini ai secoli bui di quanto non ci piaccia credere.
"Prego, mi segua, voglio solo condurla in un luogo meno volgare di questo. E' la stanza dove leggo i tarocchi, la mano ed altre fesserie del genere che divertono tanto i sedicenti illuministi.
Beverly lo seguì oltre la porta a vetri in una stanzetta dalle pareti bianche e spoglie, illuminata da un piccolo lampadario, con un tavolino coperto da un drappo grigio su cui erano appoggiate due candele, una sfera di cristallo ed un mazzo di carte. Due sedie in legno erano accostate al tavolo, l'una di fronte all'altra. Kurtz si sedette su quella che guardava verso la porta ed invitò Beverly ad accomodarsi sulla seconda, poi prese il mazzo di carte ed iniziò a mescolarle.
Beverly fece per protestare, ma Kurtz la zitti con un gesto. Beverly notò come le sue manine pallide avessero dita lunghe e aggraziate, da pianista o da prestigiatore.
Per un breve attimo, Beverly pensò che fosse stato tutto uno scherzo e che davvero Amy le avesse fissato un appuntamento da un semplice cartomante. In quell'attimo, si ricordò di Mark Cunningham che, alla festa dell'ultimo anno, aveva ballato con lei, lasciando Amy a fare tappezzeria. Poi l'illusione svanì.
Lei soffre molo a causa di un marito che non la merita ed una vecchia amica si è offerta di aiutarla - disse l'ometto appoggiando delicatamente le carte sul tavolo ed osservandole con espressione intenta - lei è ancora perplessa se seguire il consiglio di questa amica, ma le carte dicono che deve fugare i suoi dubbi. Se lo farà, se percorrerà sino in fondo la strada che ha cominciato, allora i suoi problemi finiranno. C'è la concreta possibilità, per lei, di un lungo e felice avvenire, se sarà coerente con questa scelta e si adeguerà a ciò che le sue libere decisioni le impongono".
Con un rapido gesto, Kurtz raccolse le carte e Beverly comprese che al patto mancava solo la sua firma.
Prese la scatoletta e la appoggiò sul tavolo, senza tuttavia togliere la mano.
Kurtz la osservò distrattamente ed estrasse dalla tasca interna della giacca un mazzetto di banconote di piccolo taglio, tenute insieme da una mazzetta. "Il signor Claquesous si occuperà dei dettagli, in primis della regolarità dei suoi adempimenti".
Beverly si alzò.
Con un gesto fulmineo, da vero prestigiatore, Kurtz posò la sua mano su quella di Beverly, che ancora teneva la scatoletta, prima che lei potesse ritirarla.
"Fidati di me, Bevvie - disse - io so di che cosa hai bisogno".
Ralph ebbe il primo attacco di delirium tremens alcuni giorni dopo.
Beverly era tornata dal centro e, per la prima volta da alcune settimane, era salita sull'autobus pagando il biglietto.
Era stata una giornata ventosa. L'umidità era stata spazzata via da correnti di aria calda e secca che soffiavano da oriente e, per quanto strano potesse sembrare, l'arsura che queste avevano provocato era persino peggiore dell'afa dei giorni passati: l'aria era elettrica come se fosse stata strofinata con una pezza di lana.
Salendo le scale coperte da strati di graffiti incomprensibili e minacciosi come maledizioni scritte in lingue perdute, Bevvie teneva tra le mani un ritaglio di giornale. Cercavano una stenografa per i processi, in Tribunale.
Per alcuni mesi, dopo che Ralph aveva perso il lavoro, Beverly aveva svolto un lavoro saltuario presso il Palazzo di Giustizia di una vicina città di provincia: Westingford. Avevano bisogno di trasferire i dati su cartaceo nelle memorie del computer e, per alcune settimane, Beverly aveva trascritto grandi volumi di piccole miserie umane dalla carta ingiallita agli archivi informatici che, alla fine, anche la sonnolenta Westingford aveva dovuto adottare.
Dopo il lavoro, verso le tre, tornava a casa, aspettando l'autobus alla fermata del parco. Si sedeva su una panchina all'ombra degli aceri che, in quel periodo, stavano mettendo le foglie nuove. Faceva ancora freddo, ma, a quell'ora, i vecchi si attardavano nelle pozze di sole, consapevoli che l'inverno stava per finire. Per molte volte, Beverly aveva lasciato che l'autobus ripartisse senza di lei, rassegnandosi a prendere solo l'ultimo, che passava poco prima del sopraggiungere dell'oscurità. Con la scusa di fare due passi, si alzava e raggiungeva l'estremità opposta del parco, consapevole che, ad un passante qualunque, sarebbe potuta sembrare una delle mamme che andavano a prendere i bambini all'uscita da scuola (bambini).
Il vento l'aggredì sibilando sul pianerottolo, simile al fiato caldo d'una qualche bestia rognosa. Doveva essere vero che il vento faceva impazzire la gente.
Mentre cercava le chiavi di casa, Beverly si ricordò, suo malgrado, d'un fatto di cronaca accaduto forse cinque, forse sei anni prima, durante un periodo di caldo come quello che imperversava in quel momento.
Un ex pubblico ministero, un certo Jonathan Conti, che, dopo un brillante inizio di carriera, era stato costretto ad abbandonare la professione perché dedito all'alcool, aveva ucciso la moglie.
Ralph, che allora si occupava di cronaca nera, aveva scritto un articolo sul caso. Era stato un bell'articolo, che aveva fatto spiccare quello di Conti tra gli altri casi di follia estiva; Ralph era stato promosso.
L'articolo poteva anche essere stato bello, ma il fatto, no.
Conti non aveva semplicemente ucciso la moglie. L'aveva sbranata.
Deborah Green Conti aveva lasciato il marito solo in città per andare a trascorrere un week-end al mare dalla sorella.
Era tornata solo il martedì successivo. Joe Conti la stava aspettando. Si era nascosto tra l'erba alta che aveva invaso il giardino, proliferando grazie all'incuria in cui era stata abbandonata la casa. Quando la moglie, ignara, gli era passata accanto, le era saltato addosso e l'aveva aggredita a morsi. Secondo il coroner, il terzo morso era stato fatale ed aveva squarciato la gola della donna che, se era stata fortunata, era morta sul colpo. Non era stato possibile essere più precisi perché, dopo averla uccisa, Conti si era seduto vicino alla moglie e, un po' per volta, l'aveva divorata, strappando metodicamente di quando in quando piccoli brandelli di carne coi denti. La cosa era andata avanti per otto giorni, finché dei vicini, allarmati dal fetore, avevano chiamato la polizia. Si erano recati sul posto due agenti, Graumann e Walsh, e l'ex pubblico ministero aveva aggredito anche loro. Walsh ci aveva rimesso tre dita della mano destra, il naso, e parte dell'orecchio destro. Graumann se l'era cavata con una lesione al tendine d'Achille, che il magistrato gli aveva addentato prima che il poliziotto gli facesse saltare il cranio con quattro proiettili esplosi a distanza ravvicinata. I due agenti avevano dovuto abbandonare il servizio attivo. Ralph aveva continuato ad occuparsi di loro anche dopo il fatto, ma l'articolo su Graumann e Walsh non era mai stato pubblicato. Era il periodo del processo a Jeffrey Dahmer e Ralph aveva pensato che, dopotutto, era meglio non pubblicare certe storie. Il giornale era stato d'accordo perché aveva ritenuto che la notizia sarebbe comunque passata in secondo piano e, in più, avrebbe potuto suscitare delle polemiche se qualche pazzoide, la cui sanità mentale fosse stata squilibrata da quegli articoli, avesse imitato le gesta dei due cannibali. La storia di Frank Graumann e Bernard Walsh era quindi stata riservata a pochi intimi che, comunque, non provavano certo piacere a raccontarsela: la gamba di Graumann era andata in cancrena, nonostante le cure mediche. Si concluse che c'erano stati degli errori nel trattamento sanitario: era la spiegazione più improbabile, ma anche la più accettabile. L'arto venne tagliato poco sotto il ginocchio e Graumann si ritirò in un paesino del New England, di cui era originario. Qui cadde preda della droga (del resto, aveva subito intense cure a base di morfina). Durante un banale diverbio per un incidente automobilistico aggredì una famiglia di turisti californiani; l'uomo fu costretto ad investirlo con l'auto prima che Graumann gli uccidesse il figlio decenne dandogli fuoco dopo averlo cosparso con la benzina che teneva in una tanica del proprio furgone. Bernard Walsh divenne un satanista. Fondò una piccola chiesa privata, i cui adepti erano costretti a sacrificare al Principe delle Tenebre tre dita, il naso o un orecchio, a scelta. L'FBI stimò che, prima di venire arrestato per numerosi reati, Walsh avesse raccolto attorno a sé circa una quarantina di persone, alcune delle quali rimasero per sempre ignote. Durante la detenzione, l'ex agente si uccise squarciandosi le vene a morsi. Ralph aveva cercato di rintracciare alcuni dei seguaci di Walsh e...
Bentornata a casa, tesoro.
La porta era aperta.
Dall'interno, fuoriuscivano dei gemiti.
Beverly si disse che poteva essere ancora il vento, ma era consapevole di mentire a sé stessa. Immaginando quello che avrebbe visto prima ancora di guardare, entrò.
Ralph aveva imperversato.
La stanza era ridotta come se fosse stata infilata dentro ad un gigantesco shaker ed agitata con cura.
Il tavolo era stato rovesciato accanto alla finestra ed una gamba sporgeva al di fuori come il pennone di una bandiera. Le quattro sedie, invece, erano tutte rotte; due, poi sembravano essere state sfondate a pugni. Le poche pentole, padelle e le posate erano sparpagliate ovunque ed i cassetti divelti giacevano sul pavimento come mandibole disarticolate. La cassettiera era appoggiata al muro solo con uno spigolo, come in una prova d’equilibrismo.
La sbarra cui erano appesi i vestiti e che aveva sostituito l'armadio era stata divelta ed usata per fare a pezzi tutto quello che, per caso, era rimasto intero: il pavimento era cosparso di cocci, frantumi di vetro e liquidi imprecisati. Il rubinetto era spaccato e l'acqua colava incessantemente come da un'arteria aperta. Le scatole di cartone in cui era ammucchiata la biancheria erano state fatte a pezzi ed i capi strappati od usati per tappare i buchi aperti nel vetro della finestra. Una delle ante di questa, poi, pendeva di sbieco e, quando Beverly aprì di più la porta, i cardini cigolarono come giunture infrante.
L'accesso di Ralph doveva però essere terminato da tempo perché, ora, il marito giaceva sulla branda tenendo tra i denti una delle tendine di plastica rimaste. Di quando in quando si agitava debolmente, allontanando con languidi gesti scomposti gli assalti di aggressori immaginari. (Westingford. Non tornerai mai a Westingford. Non porterai mai i tuoi bambini nel parco. Ralph te lo impedirà, Ralph...)
Ralph è un bravo ragazzo, Bevvie, ma è un buono a nulla. lo conosco i buoni a nulla: ne ho sposato uno. Non fraintendermi,' tuo padre, Ralph, sono persone migliori di molte altre, ma... è come se fossero segnati e, presto o tardi, la sfortuna, la vita li colpirà. So che, adesso, sembra che Ralph abbia una promettente carriera davanti a sé, ma si rovinerà, o verrà rovinato. Guarda il suo sorriso, le sue lentiggini, guarda come è goffo con quelle gambe e quelle braccia lunghe, con quei capelli come fili di rame e la faccia lunga e magra come un punto esclamativo; sai che cos'è? È un bambino. Uno di quelli che accetta le caramelle dagli sconosciuti e che viene pestato dai bulli del quartiere. Ti contaminerà, Bevvie, figlia mia...
Meccanicamente, Bevvie cominciò a raccogliere i cocci disseminati per la stanza e, subito dopo, a lasciarli cadere.
Avrebbe dovuto ricomprare tutto quanto e non avrebbe potuto usare i soldi di Kurtz per andarsene e cercare un lavoro, a meno che, naturalmente, non lasciasse Ralph per sempre.
Scosse la testa.
Dove poteva andare, con cento dollari, che cosa poteva fare se non tirare avanti quel tanto che bastava per contrarre un altro debito?.
Smise di raccogliere i frammenti della sua casa e si levò in piedi.
Anche ammesso che avesse lasciato Ralph, non avrebbe potuto mai pagare gli interessi pretesi da Claquesous se non contraendo altri debiti con lui.
Sì, forse, coi soldi in prestito, non avrebbe sofferto la fame come ora, o il freddo, ma, intanto, il suo debito sarebbe cresciuto, sempre di più, sempre di più...
Patti iugulatori. Era così che venivano chiamati, a volte, nel gergo legale.
Patti che ti addentavano come Joe Conti aveva addentato la moglie.
Patti che ti azzannavano alla gola.