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Cala la Notte e, di fulgenti luci,
tu conca cheta e vaga di marina,
tanto risplendi che li sensi induci
a dubitar se a sorger sia mattina.
L’acque d’intorno a verberar conduci
dell’astri i lumi; in te già si destina
le faci trarre dal celeste stallo,
per accender l’umor di quel cristallo.
Con il suo cocchio azzurro e bruno
alta sovrasta le selve Selene
e negli abissi il marino Nettuno
è con un seguito fier di Sirene;
da que' fulgori attratto ciascuno,
giunge a quel golfo ed alle sue rene;
l’una s’adagia nel ciel sulla conca,
l’altro è lì presso, in una spelonca.
« Sede vaghissima, mio paradiso!»
quindi, principia Selene a cantare,
«Se non la Luna dal dolce sorriso,
qual immortal può mai esserti Lare?»
L’ode Nettun ch’al gorgheggio era affiso
scote ‘l tridente ed agita ‘l mare;
indi i suoi flutti ai cieli protende
e la sognante Selene sorprende.
Selene invoca i venti adirata
e le saette ei rai scintillanti.
Vola Aquilon su la conca agitata,
Euro s’abbatte sull’onde rampanti,
Austro diparte quell’acqua salata
in mille rivi ei lumi saettanti,
accompagnando que’ venti disfreni
ardon i gorghi di mille baleni.
Quinci Nettun, dallo speco profondo,
una legione di mostri ridesta:
Cariddi inghiotte ‘l Garbino sul fondo,
Scilla si leva, con l’orrida testa,
verso Selén, ed il muso suo immondo
quasi lambisce la Dea; la tempesta
è ’ndescrivibil, e l’augel e ’l pesce
a discernersi, inver, più non si riesce.
Sin all’Olimpo giungendo ‘l fastidio
si desta Giove, movendo a quel loco,
per tacitar dell'acerbo dissidio,
il rimbombar, ed entrand’egli ‘n gioco
così decreta: «Se n’abbia ‘l presidio
di questa conca Nettun, sol quel poco
allor che Febo quel mar riaccenda,
ma giunto ‘l buio a Selene lo renda! ».
E così l’acqua ritraggesi vinta,
ed il suo flutto discostan le rive,
allor che torni a risorger distinta
l’argentea luce, ch’il ciel circoscrive
coi rai Selene, in aere sospinta
dal vago brio delle Aurìdi furtive.
In tale guisa tornata la pace,
il Mondo è cheto, la Notte alfin tace.