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-PARTE 1-
La parola massa, quando viene usata in riferimento agli esseri umani, può funzionare come un dispositivo di riduzione. In tali casi, trasforma la pluralità delle persone in compattezza indistinta, annulla le differenze individuali, concede a chi parla un punto di osservazione superiore. È lo stesso meccanismo che si ritrova in contesti diversi: nella psichiatria di metà Novecento, nelle politiche sociali verso i marginali, fino alle riforme economiche imposte in tempi di crisi.
Alla guida dell’Allan Memorial Institute di Montréal negli anni Cinquanta e Sessanta, lo psichiatra Ewen Cameron riteneva che la sua disciplina dovesse imporsi come scienza sovrana, capace di orientare la politica e rifondare l’essere umano. Il suo progetto di depatterning aveva un presupposto radicale: cancellare la mente per ricostruirla. I mezzi impiegati furono il coma farmacologico protratto, gli elettroshock somministrati in serie massicce, le droghe psichedeliche, le frasi registrate ripetute ossessivamente nelle orecchie dei pazienti. Tutto presentato come cura, tutto condotto come esperimento.
Linda McDonald, ricoverata per una depressione post-partum, attraversò questo programma fino in fondo. Tre mesi di coma, più di cento elettroshock, perdita totale della memoria autobiografica. Uscì dall’ospedale incapace di riconoscere i figli, di leggere, di scrivere. Per Cameron quello svuotamento era una conquista: la lavagna ripulita, pronta per essere riscritta. Per lei significava la dissoluzione della propria identità.
Il tratto più rivelatore della sua figura non sta in una crudeltà deliberata, ma nella certezza con cui giustificava le sue pratiche. Si sentiva innovatore, convinto di agire per il bene, persuaso che la propria autorità bastasse a legittimare ogni intervento. In quella sicurezza si riconosce la presunzione intellettuale: il sapere che si proclama superiore, che non ammette limiti, che riduce gli individui a materiale da manipolare.
Se Cameron rappresentava l’estremo della scienza che cancella la voce individuale, altre istituzioni moderne compiono lo stesso gesto in forme più ordinarie: decidono al posto di chi dovrebbe poter scegliere. La presunzione intellettuale si nutre infatti anche di burocrazia e paternalismo.
Un’esperienza raccontata dall’Economist in Cutting out the middle man rovescia questo schema e mostra un aspetto opposto: quando si restituisce autonomia a chi vive una condizione di marginalità, emergono scelte razionali e sorprendenti.
Il programma consisteva nel trasferire denaro direttamente ai senzatetto, senza vincoli, senza filtri e senza che qualcuno decidesse in anticipo come spendere quelle risorse. Ci si sarebbe potuti attendere abusi, sprechi, autolesionismo. Avvenne invece l’imprevisto: molti di loro investirono i fondi con misura, trovando alloggio, cercando stabilità, affrontando bisogni concreti che nessun ente aveva saputo leggere con la stessa chiarezza.
Questa esperienza non significa che l’autonomia produca sempre risultati impeccabili — fragilità ed errori restano possibili — ma dimostra che la capacità di decidere non può essere negata per principio. Nel caso dei senzatetto, la gestione diretta delle risorse non solo ha prodotto risultati tangibili, ma ha smontato un pregiudizio: quello secondo cui chi vive in condizioni di esclusione sia necessariamente incapace di governare la propria vita.
Il valore di questo esempio non sta soltanto nei numeri, ma nell’effetto simbolico. Toglie forza a quella retorica che riduce gli altri a masse disordinate da amministrare. Restituisce evidenza a una verità semplice: dietro le categorie collettive ci sono individui che conoscono se stessi meglio di chi li osserva dall’alto.
Lo stesso meccanismo si amplifica nei momenti di crisi collettiva, quando intere società vengono trattate come incapaci di decidere. Naomi Klein racconta come le crisi diventino occasioni per chi vuole imporre dall’alto la propria visione. Nei momenti di spaesamento collettivo, quando le persone cercano di capire come sopravvivere, arrivano voci che parlano con calma e sicurezza. È la calma di chi si considera più lucido e più giusto, e che non sente bisogno di chiedere consenso. Si presenta come guida naturale, convinta che la popolazione non abbia la capacità di decidere.
In Argentina, negli anni Novanta, la promessa di stabilità si trasformò in un pacchetto di riforme che ridusse lo Stato all’osso. Vendite di imprese pubbliche, aggancio rigido al dollaro, tagli ai servizi. Tutto narrato come disciplina necessaria, come passaggio obbligato per entrare nella modernità. Intanto la disoccupazione cresceva, la vita quotidiana diventava più fragile, le persone si impoverivano. Non era percepito come fallimento, ma come il prezzo da sopportare. Quella sofferenza veniva caricata di un valore quasi morale, segno di maturità di fronte al giudizio dei mercati. Il collasso del 2001 rivelò ciò che era già implicito: una società trattata come laboratorio per verificare un modello che arricchiva una minoranza mentre la maggioranza scivolava nella precarietà.
L’Argentina non fu un caso isolato: lo stesso copione si ripeté, con ancora maggiore brutalità, nella Russia post-sovietica. Dopo la caduta dell’URSS, il Paese era smarrito e vulnerabile. In quel vuoto arrivò la “terapia d’urto”. Prezzi liberalizzati in un giorno, imprese statali svendute, strutture sociali demolite in blocco. Chi guidava quel processo non si rivolgeva ai cittadini: li giudicava un ostacolo, troppo legati al passato per capire. Il dolore collettivo veniva descritto come purificazione, passaggio necessario per entrare finalmente nella modernità. Milioni di persone scivolarono nella miseria, mentre una minoranza accumulava ricchezze immense. I promotori di quelle misure non esprimevano dubbi: si sentivano dalla parte della ragione, moralmente autorizzati a imporre un futuro che gli altri non erano in grado di immaginare.
Che si tratti di una clinica, di una politica sociale o di un intero Paese, lo schema non cambia: si guarda dall’alto, si parla in nome di altri, si nega la possibilità di decidere. Argentina e Russia mostrano lo stesso gesto che già compariva nelle cliniche di Cameron e, in forma opposta, nelle politiche verso i senzatetto: individui e comunità ridotti a massa, privati della possibilità di scegliere, descritti come incapaci di governarsi. È in questo sguardo dall’alto che si annida la violenza: non nell’urlo, ma nella voce pacata di chi si proclama più razionale e più giusto degli altri.
La massa, dunque, non è sempre una realtà oggettiva: a volte è una categoria che nasce negli occhi di chi vuole sentirsi superiore. Ma a differenza di una semplice etichetta linguistica, questa visione può avere conseguenze materiali enormi se diventa pratica istituzionale, politica, economica. Se togliamo quello sguardo, spesso restano individui capaci di decidere, anche nelle condizioni più dure.
-PARTE 2-
Al di là delle opinioni che ciascuno può avere riguardo a masse e branchi, credo sia innegabile che esistano situazioni in cui una folla umana possa diventare realmente pericolosa. Allo stesso tempo, però, penso che attribuire odio o disprezzo a una singola persona solo perché la si immagina come parte di una massa ostile rischi di essere un’interpretazione eccessiva. Personalmente, non nutro odio verso nessuno e non mi riconosco in nessun “branco”.
Non condivido del tutto l’uso di termini come “popolino”, “massa” o “branchi”, soprattutto quando sono accompagnati da un tono di superiorità morale, ma naturalmente rispetto il punto di vista altrui. La mia posizione è diversa, e spero di essere riuscito a spiegarla con sufficiente chiarezza.
Riguardo al mio atteggiamento, capisco perché possa essere sembrato arcigno: il tono con cui sono state accolte le mie critiche mi ha fatto reagire in modo meno sereno del previsto. Credo comunque di essermi espresso inizialmente con rispetto; se da parte mia qualcosa ha dato sin da subito l’impressione contraria, allora ho certamente sbagliato, e di questo mi scuso.