La scala che porta in giardino

scritto da Barbara.18
Scritto 2 mesi fa • Pubblicato 2 mesi fa • Revisionato 2 mesi fa
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Autore del testo Barbara.18

Testo: La scala che porta in giardino
di Barbara.18

 

Lo ricordo bene, era notte fonda, scendevo i gradini in pietra serena della scala che porta in giardino. Scendevo, scendevo…sembrava che i gradini non finissero mai.

Ad un certo punto ho visto qualcosa muoversi fra la siepe di alloro e le rose, una figura scura, probabilmente un animale ma non riuscivo a capire quale fosse: un gatto? Un riccio? Impossibile dirlo, correva via veloce e la sua sagoma era indistinta ai miei occhi offuscati dal sonno.

Più continuavo a scendere, più il giardino sembrava allontanarsi, e con esso l’inafferrabile figurina scura.

Insomma scendevo e scendevo, ad un certo punto mi è sembrato di essere quasi arrivata in fondo, più o meno ai piedi della siepe di alloro, quando ecco comparire di nuovo la creatura misteriosa, questa volta in vena di confidenze perché pareva volesse avvicinarsi. Non c’è voluto molto a capire che non era così, il piccolo essere aveva subito ripreso la sua corsa fra le piante del giardino.

Nel frattempo, dentro di me si stava facendo strada una sensazione, sempre più forte, come un’idea che prima si affaccia alla tua mente, poi ti sfugge e fatichi a recuperarla nella memoria. Quell’animale era solo frutto della mia fantasia, una sensazione, un ricordo. Un’idea. Qualcosa che stava nascosto nel profondo del mio io, in attesa di essere svelato.

Era una possibilità, tutto poteva accadere in quella notte senza luna.

E scendevo, scendevo. Intanto qualche nuvola sparsa si affacciava nel cielo, se fosse arrivata la pioggia dove mi sarei riparata? Così com’ero, in camicia da notte e a piedi scalzi, ancora lontana dalla rimessa del giardino e ancor più lontana dalla porta di casa, mi sarei bagnata. Fradicia dalla testa ai piedi.

Cercai con lo sguardo intorno a me: nessuno. La notte era fonda e non passava anima viva per strada, nemmeno un nottambulo di ritorno da una festa al quale poter chiedere aiuto. Ma quale aiuto, poi? Solo se avesse avuto un ombrello avrebbe forse potuto accompagnarmi fino alla rimessa degli attrezzi o  su, alla porta, una meta ormai così lontana da sembrarmi irraggiungibile. Qualcosa che apparteneva già a un’altra vita.

La mia discesa somigliava sempre di più a un brutto sogno, d’un tratto realizzai che sì, era proprio un sogno. Ero nel bel mezzo di uno di quei sogni in cui ti rendi conto che stai sognando e l’unico desiderio che hai è di svegliarti prima possibile.

Ma i miei occhi non si aprivano, le mie mani erano serrate intorno al corrimano della scala, e il cielo era ancora sopra di me, in camicia da notte e scalza.

Ero ancora nelle profondità della mia coscienza, ma non avevo afferrato il mistero, la pena segreta che dovevo scoprire per guardarla in faccia una volta per tutte. I miei piedi continuavano ad andare, verso il nulla, probabilmente.

Quando arrivò la pioggia, mi sorprese a piangere seduta su un gradino, confusa e spaventata come una bambina smarrita.

Non so perché, ma avevo paura. Non della pioggia, non della solitudine o del buio, ma di me. Di quello che avevo dentro e non voleva saperne di uscire.

Una voce nota gridò il mio nome, risposi, felice di sentirla, e sperai che quella persona venisse in mio soccorso ma non fu così. Dopo avermi chiamata, la voce, come rassicurata dalla mia risposta, cessò e per quanto facessi, per quanto tentassi di sollecitarla, non si fece più sentire. Ero di nuovo sola.

Mio marito si stava infilando il pigiama seduto sul letto. Parlava, ma non riuscivo a capire cosa diceva. Visto che non rispondevo, mi ha chiesto se stavo bene. Credo di aver balbettato una scusa del tipo che mi era scoppiato un mal di testa fortissimo, allora mi ha raccomandato di mettermi subito a letto e di prendere un’aspirina, se proprio non passava.

Prima di coricarmi ho guardato l’orologio: le 11 e trenta. Erano passati solo cinque minuti da quando ero salita in camera per andare a dormire, la mia mente, nel suo viaggio notturno, aveva registrato una dilatazione del tempo, come se fossero passate ore e ore.

Non capivo cosa mi fosse successo, avevo paura di essere impazzita. Recuperai la calma a fatica, sdraiata sul letto, accanto a mio marito, mi rasserenai.
Qualcosa mi diceva che non c’era da temere, dovevo solo accettare che quanto era  successo, e il perché, sarebbe rimasto un segreto, un mistero nascosto fra la siepe di alloro e le rose del mio giardino.

 

 

 

 

 

 

 

 

La scala che porta in giardino testo di Barbara.18
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