Charlie

scritto da Nigel Mansell
Scritto 2 anni fa • Pubblicato 2 anni fa • Revisionato 2 anni fa
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Autore del testo Nigel Mansell
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Un eroe in borghese
- Nota dell'autore Nigel Mansell

Testo: Charlie
di Nigel Mansell

Che un vero eroe dei nostri tempi, venuto dalla lontana America, possa vivere tranquillamente e del tutto indisturbato, come una persona qualsiasi, sulle sponde del nostro Lago Maggiore, è già di per sé cosa quasi incredibile.

Che poi, io lo abbia incontrato più volte, quasi inciampando nella sua vita, senza riconoscerlo, senza capire e neanche poter immaginare chi fosse, lo è ancora di più.

 

Lui è Charlie.

 

Dopo varie peregrinazioni, vive proprio nel mio paese, Cambiasca. Una piccola località quasi rurale, con alle spalle la Val Grande e di fronte il nostro splendido Lago Verbano. Un lago che divide stati, regioni e province, ma che è sempre stata un’incredibile via di collegamento di popoli, idee e ricchezze. Tutt’ora, nonostante la monarchia sia stata abolita dal 1946, feudo dei Principi Borromeo.

 

Charlie ho iniziato a conoscerlo nella piscina di Verbania, che sia io che lui siamo soliti frequentare. Mi incuriosiva quest’uomo di colore, alto e dinoccolato, sempre allegro e gioviale, che conosce e saluta tutti. Tutti lo chiamano solo per nome, come se non avesse un cognome, che infatti nessuno pronuncia mai. Mi faceva allora pensare che non avesse una storia, cioè una vita precedente a quella che potevo vedere, e che fosse apparso qui sul nostro Lago, come piovuto dal cielo.

Incuriosito dal personaggio, avevo anche chiesto informazioni a un amico. Mi disse: ma sì, è il portiere di notte dell’Eremo di Miazzina, suona il sax. Allora mi era bastato.

 

Mi ha sempre dato l’idea che sia uno che non se la passi molto bene dal lato economico. Vestito sempre in maniera molto semplice quasi dimessa, lo vedo arrivare con un’auto molto male in arnese. Non dovrebbe abitare molto lontano da me, perché quell’auto la vedo posteggiata in una casa di corte, leggermente fatiscente, come molte delle case del centro storico di Cambiasca, nei cui cortili si possono ancora leggere i segni di un passato di frugale agricoltura e piccolo allevamento.

A volte si presenta completamente rasato, il che lo fa sembrare anche più giovane, se non fosse per quel suo incedere traballante su quelle lunghe gambe, che sembra gli creino anche una grande sofferenza nel deambulare. Altre invece si fa crescere i capelli, che così lo fanno sembrare un afroamericano della disco music anni Settanta.

In piscina se la prende sempre con molta calma. Si fa le sue vasche con estrema lentezza e una volta finito non ha fretta di tornare a casa, nonostante l’ora tarda. Probabilmente nessuno lo aspetta. Carica di centesimi il phon, ci infila la testa sotto, e si perde nell’osservare video comici in inglese su YouTube.

Finisce che ogni sera lo lascio lì, a ridere tutto solo per quei video. Immagino che prima o poi quella testa riccioluta gli andrà a fuoco, per via di tutto quel tempo sotto il phon incandescente.

 

Ma poi, quasi per caso ho scoperto chi è quest’uomo. Lui è il grandissimo Charlie W. Yelverton, classe 1948 di New York.

 

Molto incuriosito sono andato a leggermi tutto su di lui e non riesco davvero a credere come una persona del genere, purtroppo devo dirlo, che adesso pare quasi un clochard, possa vivere in un paesino così piccolo e sperduto, quale può essere Cambiasca, rispetto alla nativa New York City.

 

Charlie Yelverton è stato un giocatore di basket nella NBA americana. Purtroppo, la sua esperienza fu molto breve, ma è lì che iniziò la sua leggenda.

Cresciuto nella povertà del Bronx, quartiere rinomato negli anni Settanta per la sua estrema pericolosità, costretto a dribblare spacciatori e gangster si salvò grazie alla sua passione per il jazz trasmessagli dal padre. Poi il frate irlandese Duffy farà il resto, instradandolo nel mondo del basket grazie alla squadra dell’oratorio. In seguito, l’Università, sociologia. Il tirocinio con gli homeless dei bassifondi newyorkesi. Ma intanto i Rmas e nel 1971 l’NBA con i Portland Trail Blazer.

Arriva la partita contro i Phoenix Suns. Il compagno di squadra di Charlie, Willie McCarter, nero come lui, era stato male, forse aveva fatto bisboccia, e i portland lo avevano ugualmente obbligato a giocare. Poi fu pure mandato via perché aveva sposato una bianca, ma forse anche perché a una festa per le celebrazioni pasquali, aveva fatto lo stupido dileggiando un reverendo.

In più nella squadra la situazione stava diventando insostenibile, i compagni si lamentavano per i trattamenti iniqui che subivano loro cinque, tutti neri, che avevano fatto subito gruppo nello spogliatoio.

Poi erano gli anni del Vietnam, di Nixon, del meno amato dei presidenti, che aveva promesso che avrebbe riportato tutti i ragazzi a casa. Tutti quei giovani soldati, soprattutto di colore, spediti così lontano a combattere una guerra incomprensibile. Tanti dei suoi amici c’erano poi morti in quel paese sperduto dell’Asia, che neanche si sapeva dove fosse prima della guerra. Charlie non ci era andato per via dell’asma, così gli era toccato consolare le madri degli amici, che vedevano tornare i corpi dei figli nelle bare avvolte dalla bandiera a stelle e strisce.

E poi c’era stato anche Muhammad Ali, certo, il suo idolo. Il pugile si era rifiutato di andare a sparare contro gente, che lui diceva, non lo aveva mai chiamato negro.

 

E così Charlie compì quel gesto che gli pregiudicherà la carriera sportiva, ma che lo farà entrare, forse suo malgrado, nella leggenda, facendo per sempre di lui un eroe.

Accade allora che al momento dell’inno nazionale, per protesta, Charlie W. Yelverton non si alza in piedi e se ne ritorna in panchina.

 

Forse pensava che anche i suoi compagni lo seguissero, non pensò al momento alle conseguenze di quel gesto. Magari era incazzato per la storia di McCarter, non sopportava più il trattamento che gli riservava la squadra in quanto nero, era disgustato anche per come l’America tutta considerava i neri, a cominciare da Cassius Clay. E poi c’erano tutte quelle bugie di Nixon…

 

Dopo quel gesto, il pubblico iniziò fischiarlo, gli diedero anche del comunista, ma lui zittirà tutti con l’invenzione di un canestro eccezionale.

 

Ma quella sera finì la sua carriera da professionista, per lui non ci sarà più posto nel campionato Nba. Però, sempre quella sera, era nata l’epopea di Charlie.

 

I vertici della squadra lo convocarono, gli dissero che non poteva esprimere idee politiche. Lui rispose che allora non era libero, per risposta lo multarono di 300 dollari.

A fine stagione lo tagliarono, passò per bolscevico, per uno dei Black Powers. Intorno si ritrovò solo terra bruciata. Tutti gli voltarono la faccia, anche il suo amico di infanzia Kareem Abdul-Jabbar, lui che lo chiamava Brother Charlie, che gli aveva regalato il suo sassofono.

 

Così proprio quel sax diventerà il suo unico compagno nelle notti passate in auto, costretto a fare il taxi driver dalle sei di sera alle sei di mattina, perché per lui nello sport professionistico ora non c’era più posto. Ma poi, appena poteva, correva al Village Vanguard, il mitico locale jazz del Greenwich.

 

Charlie ce l’ha ancora quel sax, lo suona ogni giorno.

 

Poi un colpo di fortuna, l’Olympiacos gli offre un lauto ingaggio. Ma stiamo parlando della Grecia dei Colonnelli.

Il clima era veramente pesante, se dopo il tramonto fosse stato trovato in giro per Atene, avrebbe pure rischiato di essere arrestato come pericolo sovversivo.

Quindi, ancora da sconfitto, non gli resta che tornare a New York, in cerca di piccole occupazioni per sopravvivere.

Ma lui dirà che quelle notti passate a fare il tassista o chissà che altro, saranno per lui il più bel insegnamento della cultura americana e newyorkese.

 

Finalmente qualcosa sembra andare per il verso giusto per lui. Con la squadra itinerante della Riccadonna, per un torneo estivo, arriverà in Italia.

Lo vede Sandro Gamba, sta cercando uno straniero, un americano, ma lo vuole alto, grosso, proprio come si può immaginare un fuoriclasse americano. Yelverton lungo non è, (per il basket chiaramente). Sfiora appena, si fa per dire, il metro e novanta. Ma gioca a pallacanestro da Dio, con classe e naturalezza, come se fosse nato per quello. Il suo stile è perfetto, tutto gli riesce semplice e nessuno riesce a marcarlo. Gamba si intestardisce e contro il parere di tutti lo porta alla Ignis Varese.

 

Charlie diventa l’americano di coppa, ai tempi nella serie A si potevano tesserare solo due stranieri. Secondo Yelverton si dovrebbe tornare a quei tempi, per rivedere un basket italiano vincente.

Con Bob Morse e un certo Dino Meneghin, loro sì che superavano i due metri, Charlie salì sul tetto d’Europa.

Poi la Pintox di Brescia, ma ci sarà anche uno scudetto con la Mobil Girgi Varese e di nuovo la Coppa dei Campioni.

 

Ma il passato ritorna. Di nuovo lui contro tutti.

Si gioca contro la formazione israeliana del Maccabi di Tel Aviv. Sugli spalti gruppi di neonazisti inneggiano alla Shoah. Se trattano così gli ebrei figuriamoci i neri pensa. Alla fine della partita Charlie rifiuta di farsi intervistare. Suo malgrado scopre che l’America non è così lontana, c’è anche un razzismo italiano. In certi palazzetti dice, si faceva la doccia con gli sputi. Lo chiamano anche qui sporco negro.

 

Finirà la carriera professionista in Svizzera, nel Viganello. Ma giocherà ancora da dilettante, a quasi quarant’anni, nel Saronno.

 

Rimarrà poi lì a insegnare ai ragazzi. E qui un’altra impresa. Joe Briant gli affida il figlio Kobe per un torneo estivo. Lui gli insegna i fondamentali, gli esercizi di controllo, quello che Charlie chiama l’alfabeto del palleggio. Quando qualche anno dopo Kobe Briant arriva nell’NBA, suo padre chiamerà Yelverton per ringraziarlo: un po' è merito anche tuo, gli dice.

 

Charlie è stato inserito nella New York City Basketball Hall of Fame. Pure in Italia, a seguito di un sondaggio tra i tifosi, è entrato nella Hall of Fame della Pallacanestro Varese. Ma anche, in occasione del cinquantesimo anniversario della Eurolega – Coppa dei Campioni, è stato nominato nella lista dei centocinque giocatori che hanno fatto la storia della competizione. È pure nella Atlantic 10 Legends Class. Una carriera incredibile!

 

Una sera, alzando per un momento la testa riccioluta dai suoi video, mi dice che la settimana prossima tornerà in America: gli amici di New York mi vogliono lì, mi hanno pagato tutte le spese.

Non capisco bene di cosa parli, anche perché un leggero accento lo ha conservato e a volte si imbroglia con le parole.

Lo rivedrò qualche settimana dopo. Tutto rasato e glabro come un lattante, senza neanche la barbetta. Dice che l’America non gli è piaciuta, è troppo violenta, anche i suoi amici hanno paura. Mi riferisce che non si fidano neppure di prendere la metropolitana. Incredibile sentirlo da lui, dice che i repubblicani avevano lavorato meglio, per lui ora i democratici sono troppo permissivi. Boh, forse vale il vecchio adagio, si nasce incendiari, si muore pompieri.

 

Anche questo lo scoprirò dopo, vengo a sapere perché lo avevano chiamato a New York.

La sua Università aveva deciso di ritirare il numero 34 della maglia della Fordham University, in onore dell’annata 1970/1971, quando in quella stagione ineguagliabile segnò 676 punti. In rete trovo le foto della celebrazione che ha presenziato. In realtà è un po' accigliato, chissà, forse gli mancava Cambiasca.

 

Più vecchio, lasciato definitivamente il Basket è diventato solo Charlie Sax.

È incredibile realizzare la cosa, erano altri tempi, ma se avesse giocato oggi a quei livelli, ora sarebbe milionario. Invece fatica, non ha una pensione, molti gli devono soldi per le sue consulenze e per questo si negano. Allora certo, la musica aiuta. Ha suonato in varie formazioni, anche con Miles Davis, Charlie Parker e pure Fabrizio De André. Lo fa ancora, chiaramente non più a quei livelli.

 

Ma poi il passato ritorna di nuovo. Ancora, nel duemilauno deve piangere degli amici. Lo viene a sapere dalla televisione, qualche giorno dopo il crollo delle Torri Gemelle. Quattro dei suoi amici vengono commemorati tra le vittime. Uno di loro, Patterson, un irlandese, lavorava proprio nel World Trade Center. Un reduce del Vietnam, piccolo ma fortissimo.

 

Charlie ha due figli, un maschio e una femmina. Jessica, una bellissima donna, dal fisico statuario, è stata una promessa del nuoto. La conosco bene, abbiamo anche nuotato insieme e sempre, molto dopo, ho capito che era sua figlia. Poi per lei non tutto è andato per il verso giusto, ma è una vicenda personale che preferisco lasciare in quell’ambito.

 

È un po' che non vedo Charlie, non abbiamo più gli stessi orari in piscina e non ci incontriamo più. A Cambiasca certo non capita di incrociarci.

Oggi si vive in modo diverso, questi paesini sono diventati solo dei dormitori. A fare spesa si va a Intra, Gravellona… magari Milano.

 

Ma a Cambiasca sopravvive il circolo, ci vanno tutti, vecchi e giovani, arriva gente anche da fuori. Un ottimo centro di aggregazione, anche e soprattutto, per darci sotto con l’alcol.

Vicino alla cassa c’è una sua foto autografata di quando giocava nella Ignis. Di suo pugno ha scritto: Non rubare la mancia, Pirla.

 

Questo è il grande Charlie Yelverton.

Charlie testo di Nigel Mansell
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