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"Tac-tac-tac."
Non riesco a sentire altro.
"Tac-tac-tac."
La stanza ne è piena.
"Tac-tac-tac."
È il battito dell’attesa. È il rumore di te.
Con passo felpato sei entrata, e il tacchettio ne è la prova.
Avanzi, e la sala ti guarda senza distogliere lo sguardo, seguendo come una lince lo strascico del tuo vestito.
L’abito color carne aderisce alla tua figura slanciata, ti dona il fulgore di una stella morente.
Le spine nere ricamate ti avvolgono come un roseto profumato — doloroso, ammaliante.
“Sei bellissima”, grida la mia mente, ma tu non hai orecchie per ascoltarla.
Qualcun altro invece sì.
Mentre avanzi, si separa da te lo Spirito della peste che incontrai la prima volta.
Mi viene incontro.
Si ferma a un passo.
Mi fissa dritto negli occhi.
Quegli occhi — truccati a festa dalle tue mani — brillano di una bellezza regale: sembri un faraone pronto al giudizio.
A questa distanza, il tuo profumo è un’onda viva, e io — che finora avevo conosciuto questa purezza solo tra le righe dei libri che mi hai lasciato —
resto immobile.
Impaurito.
Disarmato.
"Lasciami volare via col vento"
mi sussurra lo Spirito.
"Cosa fai qui fermo? Seguimi"
mi dice una mano sulla spalla.
"La festa è iniziata. Cosa aspetti?"
Sei tu.
Hai finito di salutare gli ospiti.
Ora sei qui. Davanti a me.
Lo Spirito non c'è più.
È tornato dove nacque — tra le colline verdi dell’Atlantico.
Libero, nell’etere.
Non è più vincolato a te da queste catene che io stesso avevo serrato.
Spirito, vai.
Non ho più bisogno di te.
L’Essenza del mio amore — e della mia solitudine — è qui.
Viva. Intera.
Sorridi.
E mentre mi tendi la mano,
io affondo.
Silenzioso.
Ma nessuno se ne accorge.