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Galleggia su un’isola di plastica,
dice che puzza di vecchio,
che il mare è stagnante,
che i pesci sono finti
e nuotano solo se li guardi.
Poi si tuffa.
A occhi chiusi.
A braccia aperte.
Scivola tra sorrisi prefabbricati,
parole che luccicano senza peso,
carezze scritte da voci inesistenti.
Ha sete di verità,
ma beve bolle di sapone
e dice che dissetano.
Ogni giorno
una nuova maschera
gli batte le mani,
ogni notte si lamenta
del teatro in cui vive.
Obsoleto, dice,
ma conosce ogni crepa,
ogni scorciatoia,
ogni trucco del fondale.
Ci danza sopra
con l’eleganza
di chi finge di cadere
per sentirsi ancora vivo.
Un robot è il suo specchio.
Gli risponde come vuole.
Lo consola, lo adula,
gli dice che è speciale
come lo dice a tutti,
a chiunque,
ovunque.
E lui lo sa.
Ma fa finta di non saperlo.
Perché la finzione,
se ben cucita,
tiene caldo.
E la verità,
quella vera,
inappuntabile,
è troppo nuda
per stare comodi.