Il monumento della dimenticanza

scritto da ritaglididiario
Scritto 4 mesi fa • Pubblicato 4 mesi fa • Revisionato 4 mesi fa
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Mi bastavano un paio di abbracci in più. Ma se li avessi avuti, tu questa storia non l’avresti mai letta. E sarebbe stato un gran peccato.
- Nota dell'autore ritaglididiario

Testo: Il monumento della dimenticanza
di ritaglididiario

I miei genitori mi hanno fallita.
Dico sul serio.

Non per farmi compatire, né per creare un effetto drammatico.
Una frase secca, che non lascia spazio a interpretazioni carine o edulcorate.

Sono la terza di quattro figli: due sorelle più grandi, un fratello molto più piccolo, arrivato quando ormai non lo aspettava più nessuno.
Figlia di due genitori sempre di corsa, sempre al lavoro.

Sono stata a lungo la più piccola, la più coccolata, la più viziata o almeno così si racconta.
(Spoiler: non è stato proprio così.)

In realtà, sono stata dimenticata.
Forse esagero, ma alla me bambina che ogni giorno restava fuori da una scuola ormai vuota, sembrava tutto fin troppo chiaro.

Non una volta. Non per sbaglio.
Ma ogni giorno, alla stessa ora, davanti agli stessi cancelli.

Rimanevo lì, accanto alla mia insegnante, mentre la scuola si svuotava.
Le voci dei compagni si spegnevano una a una.
E io aspettavo, con lo zaino a terra, le gambe rigide, e quella domanda muta nella testa:
"Perché nessuno viene per me?"

Potreste pensare che, dopo la millesima volta, mi ci sarei abituata.
E non sarebbe cattiveria: l’ho pensato anch’io.
"È inutile che cerchi. Arriveranno quando arriveranno."

Stavo lì, con lo zaino a rotelle abbandonato per terra, gli occhi piantati sull’ingresso, come se da lì dovesse sbucare qualcuno che si ricordasse di me.

Ogni passo, ogni macchina bianca che rallenta, ogni rumore di chiavi o tacchi, trattenevo il respiro.

Mi giravo, tiravo su il trolley. Ma non era mai per me.

Solo la mia maestra, che dopo un po’ si stancava anche lei e andava in cerca di un’altra persona:

— Puoi restare con lei? È ancora lì.
— Sì… come sempre.

Ed è proprio lì che quel famigerato "come sempre" si infilava ogni giorno nel mio senso di umiliazione.
Quell’imbarazzo viscerale che ti annoda le corde vocali quando, con voce gentile, ti chiedono:
"Sai per caso quando arrivano i tuoi genitori?"

Ma io ho solo otto anni. E una gran fame di merenda.

Quindi:
"Non lo so, scusami. Spero presto."

Non ero l’unica ad avere fame.
A farmi compagnia, c’era qualcosa di ancora più affamato di me: la vergogna.

Una fame animalesca e bastarda.
Non mangiava.
Banchettava con il mio corpo, la mia voce, la mia paura.
Masticava con denti storti e impazienti, come si mastica una cosa viva che si dimena.
Divorava senza pietà, strappando via la cartilagine, i tendini, i nervi ancora pulsanti.
Mi spolpava viva con una lentezza sadica.
Rosicchiava la dignità, succhiava il pudore, si leccava le dita sporche di me.

E mentre trattenevo le lacrime dal dolore, lei godeva nel vedermi zitta.
Nel sentirmi fare finta di niente mentre mi sbranava.
E io restavo lì, immobile, mentre mi faceva a brandelli.

Poi mi sputava.
Davanti a tutti.
Mi lasciava lì: rossa, stropicciata, quasi ridicola.
Un avanzo umano.
Un pasto finito male.

Quella vergogna non voleva solo il mio silenzio.
Voleva che io mi sentissi colpevole per essere ancora lì, ancora intera, ancora io.

Il tempo?
Non passava.
Le lancette si prendevano gioco di me, immobili, in sciopero di solidarietà con l’assenteismo dei miei genitori.
E io, seduta, a fissare un orologio che non sapevo leggere, cercando un movimento che non arrivava mai.

Tutto questo, mentre cercavo di fingere che non mi importasse.
Che fosse normale.
Ma non lo era.
E il corpo lo sapeva: quella stretta alla pancia, quella gola chiusa, quello sforzo disperato di non piangere.
Tutto urlava che qualcosa non andava.
Che io non andavo bene.

Questa piccola umiliazione quotidiana ha avuto una carriera lunga: tutta la scuola elementare.

E da lì in poi, è solo peggiorato.
Il carico lavorativo dei miei è aumentato a dismisura.

A casa nessuno mi chiedeva nulla.
Se facessi i compiti. Se avessi un’interrogazione, una verifica, un crollo nervoso.
Niente.

Non si domandavano nulla, e io da brava allieva restituivo la cortesia.
A scuola diventavo lo specchio perfetto del vuoto che mi veniva servito ogni giorno.

Nessuno voleva sapere se stessi andando bene o male.
Quindi, per coerenza, sono andata male.
L’indifferenza è una lingua che si impara in fretta.
E io l'avevo imparata a memoria.

Non studiavo. Non facevo i compiti. Non rispondevo.
Forse, in qualche piega contorta del mio cervello di bambina, era anche un atto di ribellione.
Un modo storto per dire: guardatemi.
(Solo perché sono generosa, vi lascio il secondo spoiler: non ha funzionato.)

L’unica a vedermi era la mia maestra d’italiano.
Che non mi guardava: mi infilzava.
Nessuna tenerezza o premura, solo rimproveri a raffica e una delusione gridata abbastanza forte da farmi arrossire.

I compiti non li facevo, è vero.
Ma a collezionare vergogna ero bravissima.
Ho un archivio ben fornito, ogni tanto la sera a letto mi piace riaprirlo.

In quinta elementare, lo studio è diventato un nemico.
Non solo le maestre: anche i libri, i quaderni, l’odore stesso della carta.
Li evitavo, li rimandavo, li odiavo.

Lo studio era diventato il promemoria vivente di qualcosa che nessuno voleva vedere: me.
Io, che tentavo goffamente di farmi notare.
Di fare casino.
Di mancare di rispetto alla scuola con la speranza che almeno qualcuno, per rabbia o per stanchezza, si accorgesse di me.

Invece no.

In cambio ho ricevuto solo silenzi.
E una serie di lacune gigantesche che mi porto ancora addosso.
E una paura paralizzante della matematica, già che ci siamo.

Non mi dimenticherò mai tutte le scuse che mi sono inventata pur di non andare a scuola.
"Mi sento la febbre."
"Ho male alla pancia."
"Non mi sento bene."
Tutta una collezione di dolori inventati, perché quelli veri non facevano abbastanza rumore.

Una volta, la più ridicola forse, ero arrivata davanti a scuola in macchina, e piangevo disperata, supplicando i miei di non farmi scendere.
Mi aggrappavo al sedile, singhiozzavo, un groviglio di lacrime e zaino a rotelle.
Ma loro dovevano lavorare.
Quindi mi hanno sgridato.
E io sono scesa in silenzio.
Una mano sul trolley, l’altra a strofinarmi via le lacrime con la manica del grembiule.

Con un sollievo strano, simile alla libertà, ho finito la scuola elementare.
E per fortuna, da lì in poi, qualcosa in me ha cominciato a respirare.

Nell’assenza dei miei genitori, passavo ore e ore davanti alla televisione.
Leggevo pile di libri, riempivo diari di parole, mentre MTV mandava in loop videoclip e sogni di gloria adolescenziali.

Nessuno mi ha mai dato la possibilità di esplorare i miei interessi.
La musica, la danza o lo sport, tutto rimaneva solo un’idea, una traccia sbiadita.

Forse sarei stata scarsa in tutto,
ma almeno ci avrei provato.
Chissà.

Però, mi viene in mente quella volta in cui ho partecipato a un corso di scacchi.
Alla gara finale, i miei genitori non si sono presentati.

Cercavo disperatamente i loro sguardi, ma c’era solo quello della madre di una mia amica, che faceva il tifo per me.
Nascondere le lacrime durante la partita è stato un miracolo.
Solo il flash delle foto, insistente e regolare, riusciva a distrarmi un po’.

Da quel momento, non ho più provato nulla di nuovo.
Ho deciso che non ne valeva la pena.
La musica, la carta e la mia penna nera a gel preferita sono bastate.

Anni dopo, quando è nato mio fratello, mia madre ha lasciato il lavoro.
Mio padre ha cambiato orari e lavorava spesso da casa.

La ferita che per anni avevo curato e pulito con ostinazione si è riaperta.
Più larga. Più infetta. Più cattiva.

I miei genitori, finalmente, avevano deciso di essere genitori.
La loro brillante trasformazione da genitori modello consisteva in:
colloqui con ogni insegnante, feste di compleanno con palloncini a forma di animali, appuntamenti per “far giocare i bambini insieme”, tabelline cantate in macchina, libri letti prima di dormire, e coperte rimboccate ogni sera.

L’avevano iscritto ovunque: nuoto, rugby, calcio, basket, musica, campi estivi.
E loro c’erano. Sempre.
Ai compiti, alle interrogazioni, ai cartelloni scoloriti fatti con il Vinavil.
Recite, saggi, presentazioni.

Eccoli lì: in prima fila a registrare tutto.
A scattare foto da stampare e infilare nei mille album che oggi sfogliano ridendo.
Mentre dal pubblico, tra uno zoom e l’altro, gli regalavano quel famoso pollice in su, quello che si dà anche quando non si è capito niente.
Raccontano aneddoti. Si fanno grasse risate.
Ricordano "quei bellissimi momenti".

Io?
Io guardavo tutto questo. E dentro mi sembrava di esplodere in silenzio.
Mi sembrava di essere diventata polvere.
Una cosa lasciata in fondo a un cassetto che nessuno vuole mai più aprire.

Il bello è che mi viene pure da ridere, non so se per l’ironia o per l’assurdità della cosa.
Basta guardarsi attorno: la casa in cui sono cresciuta è tappezzata di foto delle mie sorelle e di mio fratello.
Di me ce n’è solo una.

Una foto di quando ero bambina.
Quella basta, evidentemente.
Sto cercando di camminare, in modo maldestro.
L’hanno piazzata all’ingresso.
È grande. Impossibile non vederla.

Le ho pure dato un nome, come si fa con le cose importanti: il monumento della dimenticanza.

Forse l’hanno messa lì perché si sentono in colpa.
O forse perché gli faccio pena.
Conoscendoli, direi entrambe le cose.

Nonostante tutto, se dicessi che oggi non porto neanche un briciolo di rancore,
mentirei.
Sarei una bugiarda travestita da persona pacifica.
Una che vuole accartocciare tutta la vergogna, farne una pallina e tirarla a canestro.
Un gesto inutile, ma catartico.

Mentirei anche se dicessi di non aver mai provato gelosia.
Per mio fratello. Per le mie sorelle.
Se dicessi che non ho passato notti intere tra paragoni e lacrime,
che non ho riempito pagine di diario parlando di questo.
Ironia della sorte: lo sto facendo anche adesso.

Perché quando vivi ogni giorno accanto a quello che ti è mancato,
anche solo cenare con i tuoi genitori e tutta la loro impeccabile reinvenzione, 
può rendere ogni boccone insopportabile.

Per fortuna, non è più così.
Gli angoli si sono ammorbiditi. Anche la rabbia.

Mi rendo conto dei sacrifici che hanno fatto.
I turni massacranti, i piedi distrutti di mio padre,
le vene gonfie sulle gambe di mia madre.

Eppure, io desideravo solo una cosa:
che qualcuno mi chiedesse com’era andata la mia giornata a scuola.
Non per riempire il silenzio a cena, durante la pubblicità del telegiornale.
Ma per davvero.

Sono cresciuta io, ed è cresciuto anche mio fratello, ormai alle porte dell’adolescenza. 

Quando lo guardo, sono felice.
Felice che non abbia mai conosciuto quel vuoto.
Che non abbia mai dovuto sentirsi invisibile.
Che non abbia mai dovuto inventarsi dolore per attirare attenzione.
Lui l’ha avuta tutta.
Ed è giusto così.

Ad oggi la distanza dei miei genitori la vedo con occhi diversi. Erano solo esseri umani stanchi, fallibili.
Non perfetti e va bene così.

Non scrivo questo per condannare i miei genitori.
Hanno fatto ciò che potevano, con gli strumenti che avevano.
E se potessi, li ringrazierei mille volte.

Ma, proprio tra noi, non sono nemmeno la personificazione moderna del Dalai Lama.
Se oggi apparisse un genio con tre desideri,
oltre alla pace nel mondo e il classico "vorrei desideri infiniti",
forse chiederei anche di ricevere qualche abbraccio in più dai miei genitori.

Ma il genio non verrà.
E anche se la ferita a volte si riapre, ricordo che senza tutto questo, oggi non sarei me stessa.

Tra poco compio ventun’anni.
E se c’è un filo che non ho mai smesso di intrecciare,
è quello che mi tiene in contatto con la mia interiorità.

Un lavoro silenzioso.
Un lavoro che non finirà mai.
E che spero non finisca mai.

Il monumento della dimenticanza testo di ritaglididiario
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