Contenuti per adulti
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Capitolo I – La casa dove crescono i crisantemi
Hangzhou non era ancora quella città che i poeti celebravano nei tramonti sul lago,
ma già allora i tetti di tegole curve raccoglievano il cielo con la stessa grazia che raccoglie le parole mai dette.
Zhu Shuzhen nacque in una casa dove i crisantemi bianchi fiorivano tutto l’autunno.
Non in giardino, ma nel cortile interno, là dove si affacciavano solo le stanze delle donne.
Sua madre diceva che non profumavano perché erano fiori che custodivano il silenzio.
La casa era grande, ma i suoi confini erano invisibili:
non si oltrepassavano con le gambe, ma con gli occhi e con la voce.
Le donne vivevano nelle stanze interne (nei nei),
uno spazio non fisico, ma sociale.
Uno spazio dove si nasceva senza avere la possibilità di uscirne davvero,
anche se si camminava in giardino.
Zhu imparò presto che esisteva un linguaggio per essere viste e un altro per non turbare.
A cinque anni sapeva leggere le Analette di Confucio,
a otto componeva versi semplici sullo stagno e le libellule.
Il padre la elogiava davanti agli ospiti,
ma poi le ricordava, con la voce dolce,
che una donna istruita doveva saper smettere prima che il mondo si accorgesse del troppo.
“Nelle donne, la virtù maggiore è la modestia”
(così insegnavano le Quattro Virtù: de, yan, rong, gong — virtù, parola, aspetto, lavoro)
Zhu scriveva comunque, su pezzi di carta ripiegati a triangolo,
che nascondeva tra i libri di medicina della serva anziana.
C’erano solo due modi per uscire da quella casa:
morire o sposarsi.
Eppure, Zhu pensava che forse c’era un terzo:
scrivere parole che qualcuno, un giorno, avrebbe raccolto.
Un giorno d’autunno, il vento spazzò i petali dei crisantemi fino alla soglia del suo studio.
Lei li raccolse in una ciotola di porcellana e li posò accanto al calamaio.
Poi scrisse — con mani minuscole, con cuore nascosto:
“Mi hanno detto che i crisantemi fioriscono quando l’aria è già fredda.
Ma io sento ancora l’estate in ogni cosa che tace.”
Nessuno lesse quel verso.
Eppure, in quel momento, qualcosa iniziò a vivere per sempre.
Capitolo II – Le stanze dove i crisantemi non profumano
Il giorno del matrimonio pioveva leggero.
Non era la pioggia che sporca i vestiti,
ma quella che fa tremare le mani quando si portano i fiori verso un altare che non si è scelto.
Zhu non vide il volto del marito fino al terzo giorno.
Neppure allora lo guardò a lungo.
Non per timidezza.
Perché nessuno le aveva insegnato come si fa a guardare un estraneo e chiamarlo destino.
Nella nuova casa, i crisantemi erano di stoffa.
Sui pannelli di seta, cuciti con ago fine.
Le servivano per decorare, non per profumare.
Ma lei ne sentiva la mancanza —
quel profumo secco e chiaro che aveva il suono della madre quando taceva.
Il marito era corretto.
Educato.
Invisibile.
Le parlava come si parla a una serva fedele:
con sufficienza e compostezza.
Non la colpiva.
Non la amava.
Era il modello perfetto del marito confuciano:
"controllato nella forma, distante nell'affetto".
Zhu abitava le stanze femminili del palazzo.
Aveva servitrici, libri, aghi e filo.
Tutto ciò che si considera decente per una moglie:
disciplina, silenzio, attesa.
“Il ruolo della donna è servire il marito,
senza mostrare né gioia, né lamento.”
(codice di famiglia, periodo Song)
Scriveva solo di notte,
quando anche i topi tacevano per rispetto.
Scriveva seduta accanto a una lanterna.
E le parole erano l’unica cosa che le faceva ombra.
“Non amo l’inverno,
ma almeno mi è simile:
resta fuori da tutto,
ma sa come entrare in silenzio.”
Una notte trovò un suo verso caduto accanto al braciere.
Avrebbe potuto prender fuoco.
Avrebbe potuto bruciare tutto.
E si accorse che non temeva più nemmeno quello.
Il giorno dopo, rilesse i precetti per le donne della casa Song,
scritti su rotoli dorati:
“Una buona moglie obbedisce.
Una donna virtuosa non desidera.”
(Raccolta di precetti domestici, citazione presente in Images of Women in Chinese Thought and Culture)
Ma Zhu, in cuor suo, già desiderava qualcosa che non aveva nome.
Non libertà.
Forse solo un volto che la guardasse come si guarda un verso scritto di getto.
E così, in una casa dove tutto era bianco e composto,
i suoi crisantemi non profumavano più.
Ma una sera, mentre una serva le chiudeva la finestra,
un petalo secco si posò sulla scrivania.
Lei non lo spostò.
Ci scrisse sopra:
“Mi hanno detto che le donne sono come fiori.
Ma io so che siamo semi.
E i semi,
se non possono sbocciare,
sognano.”
Capitolo III – Il volto che non chiese nulla
C’era un uomo.
O forse no.
Forse c’era solo uno sguardo che le ricordava che esisteva un mondo oltre le tende di bambù.
Qualcuno parlava di lui come di uno studioso venuto da lontano,
mandato per un concorso imperiale,
oppure solo per insegnare calligrafia ai figli dei funzionari.
Zhu non ne disse mai il nome.
Nei suoi versi, era sempre “colui che passa”,
“l’ombra tra i pini”,
“la voce che non resta”.
Un giorno lo incontrò, davvero.
O forse fu solo il vento a suggerirlo.
Camminava nel cortile e lui le rivolse un cenno,
non il saluto consueto, ma un indugio.
In quella pausa, Zhu pensò che tutta la sua vita era stata fatta di assenze.
E che quell’istante – breve come un battito di cicala –
era già qualcosa da ricordare.
“Passasti come chi ha fretta
ma lasciasti in me l’autunno intero.”
Nel pensiero confuciano della dinastia Song,
l’emozione era sospetta.
L’amore – se non dentro il matrimonio – era errore e vergogna.
Per una donna, provare desiderio era più grave che provare dolore.
Ma Zhu scriveva lo stesso.
Scriveva per togliersi dalla pelle il nome di moglie.
Scriveva per toccare con l’inchiostro ciò che non poteva dire a voce.
Scriveva per vivere almeno nella pagina.
“Tu non restasti.
Ma io cominciai da lì
a sapere cosa vuol dire restare.”
Una sera lo rivide, lontano.
Nel cortile esterno, tra i pini.
Non parlò.
Non si avvicinò.
Zhu si accorse che non voleva possederlo.
Voleva solo che lui sapesse che, in qualche parte del mondo,
c’era una donna che lo aveva visto davvero.
Non con gli occhi.
Con quella parte del cuore che la società aveva chiesto di chiudere a chiave.
Le notti si fecero più piene.
I versi più audaci.
“Non scrivo per essere letta,
scrivo perché altrimenti
resterei in silenzio per sempre.”
Zhu sapeva che, se qualcuno avesse letto quei versi,
avrebbe perso il poco che aveva:
la reputazione, il nome, forse la vita.
Ma continuò a scrivere.
Perché l’amore – anche se immaginato –
era l’unica cosa che le apparteneva del tutto.
Capitolo IV – Il fuoco e il vaso spezzato
Morì giovane.
Non c’erano cronisti, né epitaffi, né sacerdoti che ricordassero il nome.
Solo una serva, si dice, rimase a piangere in silenzio mentre la bara attraversava il portone della casa.
Il marito non parlò.
Forse era già altrove.
Forse era sempre stato.
La stanza di Zhu restò chiusa per tre giorni,
come si fa quando si deve decidere se un’esistenza va ricordata — o cancellata.
Il quarto giorno, gli zii radunarono tutti i suoi scritti.
Li trovarono nascosti in cassetti, dentro astucci da ago,
tra le pagine del Liji, il Libro dei Riti.
Erano poesie.
Erano parole che non dovevano esistere.
“La donna è come il vaso di porcellana:
bella da vedere,
inutile se crepata.”
(detto trascritto in Concubines in Song China)
Zhu, scrivendo di desiderio, dolore, memoria,
aveva crepato la porcellana.
Le carte vennero portate nel cortile.
Accesero un piccolo braciere.
La pioggia aveva smesso, ma il fumo salì ugualmente dritto verso il cielo.
Una poesia si salvò.
La serva, si racconta, la strappò via prima che cadesse nel fuoco.
“Anche se bruci i miei fogli,
non puoi bruciare il punto da cui ho scritto.”
Il tempo passò.
Nessuno nominava più il suo nome a voce alta,
ma i versi — quelli che erano già stati copiati a mano
da un visitatore, da un giovane allievo, da un fratello compassionevole —
cominciarono a circolare.
Non in forma di libro.
Ma tra le pieghe delle calligrafie,
sui bordi dei sutra,
nei margini delle raccolte poetiche ufficiali.
Erano parole senza firma.
Ma chi le leggeva, sapeva.
Sapeva che nessun uomo avrebbe potuto scrivere così.
“Ho sognato una stanza piena di luce.
Non c’erano finestre.
Ma ogni parola scritta vi restava,
come se il buio non avesse mai avuto il coraggio di entrare.”
Zhu non lasciò eredi.
Né titoli.
Né tombe famose.
Ma lasciò un’assenza che si riconosceva a distanza,
come si riconosce una crepa sul fondo di un vaso,
anche quando è nascosta sotto l’acqua.
Capitolo V – I crisantemi sul tavolo vuoto
Sono passati secoli.
Le dinastie si sono susseguite come onde su una riva sempre diversa.
I templi sono stati abbattuti, ricostruiti, dimenticati.
Le pergamene sono diventate sabbia.
Eppure,
in alcune biblioteche remote,
tra raccolte minori di poesie Song,
il nome di Zhu Shuzhen compare ancora.
Non in cima all’indice.
Non con grandi titoli.
Ma come una linea sottile incisa su un bordo:
fragile, ma incancellabile.
Le sue poesie – quelle sopravvissute all’incendio, al silenzio, al pudore –
continuano a parlare.
Non parlano d’amore,
ma di quello che resta quando l’amore non può essere detto.
“Non è il tuo volto che ricordo,
ma la finestra aperta,
e il vento che non voleva andarsene.”
Oggi, in una scuola di Hangzhou,
una studentessa sfoglia un’antologia.
Non conosce la sua storia.
Non sa che Zhu visse in stanze separate,
che bruciarono le sue parole,
che fu amata da nessuno,
o forse da uno che non osò restare.
Ma legge quei versi
e si ferma.
Qualcosa vibra dentro.
Qualcosa che non ha bisogno di spiegazioni.
A casa, quella sera, la studentessa scrive una frase su un foglio bianco.
Non un compito.
Non un’imitazione.
Una parola che le è venuta senza pensarci.
La posa sul tavolo.
Accanto, mette un fiore.
Un crisantemo.
Bianco.
Silenzioso.
Come quelli che crescevano nel cortile
dove una bambina imparò a scrivere il mondo che nessuno le permise di vivere.
“Non importa se non mi ricorderanno.
Ho già scritto abbastanza da non svanire.”
Zhu Shuzhen non ebbe mai un titolo ufficiale.
Ma fu una poeta.
Fu una donna che osò dire “io” quando il mondo voleva il “noi”.
Fu crepa, fu canto, fu silenzio.
E oggi, ogni volta che qualcuno sente che la propria voce non ha spazio,
ogni volta che una ragazza scrive qualcosa che non mostrerà a nessuno,
ogni volta che si ama senza essere visti—
Zhu è lì.
Come un crisantemo sul tavolo vuoto.
Non per decorare.
Ma per restare.
Capitolo VI – La ragazza nella biblioteca
Era un pomeriggio qualunque.
Le finestre lasciavano entrare una luce obliqua,
il tipo di luce che non pretende attenzione,
ma che, se ti fermi, ti accorgi che ha qualcosa da dire.
Lei era seduta da sola,
in una delle ultime file della sala lettura.
Aveva preso un libro a caso —
non per dovere,
non per noia.
Solo perché voleva sentire una voce che non fosse la sua.
Il titolo non lo ricordava.
Forse era un’antologia di donne Song.
Forse una raccolta mal classificata.
Non importava.
Quel nome la colpì subito:
Zhu Shuzhen.
Non lo aveva mai sentito.
Non appariva nei manuali scolastici.
Non era tra le grandi, le ufficiali, le celebrate.
Eppure, qualcosa nel suono —
il suono muto dei nomi dimenticati —
le chiese di restare.
Iniziò a leggere.
Poco alla volta.
Le pagine erano piene di versi brevi,
spazi ampi, silenzi come margini.
Le sembrava che qualcuno le stesse parlando,
non di grandi eventi,
non di storia,
ma di quel tipo di dolore che si conosce senza saperlo dire.
“Non fui amata.
Eppure se chiudo gli occhi,
il mio nome ha ancora la forma di un abbraccio non dato.”
La ragazza non pianse.
Non fece rumore.
Ma voltò lentamente pagina,
come se avesse paura di spezzare qualcosa che esisteva solo finché veniva letto.
Nel suo zaino aveva un quaderno.
Lo usava per appunti, ma dentro c’erano anche frasi sparse,
scritte nei giorni storti,
nei giorni senza nome.
Lo aprì.
E, per la prima volta, non aggiunse nulla.
Lasciò una pagina bianca.
Sopra, scrisse solo questo:
“Zhu”
La crepa che non fa rumore.
La biblioteca chiuse alle sei.
Uscì senza dire nulla.
Ma prima di andarsene, tornò al ripiano.
E rimise quel libro lì.
Allo stesso posto.
Come si rimettono le cose preziose:
non perché si vuole nasconderle,
ma perché qualcun altro le trovi, per caso,
e si senta chiamato.
Nel silenzio tra una porta e l’altra,
la ragazza sentì qualcosa dentro di sé fiorire.
Non era gioia.
Non era tristezza.
Era un crisantemo bianco,
senza profumo,
ma pieno di memoria.
Epilogo – La poesia non detta
Non tutte le poesie vogliono essere scritte.
Alcune restano nel corpo.
Nelle mani che tremano quando sfiorano la carta.
Nella gola che inghiotte parole mai dette a nessuno.
Zhu Shuzhen ha scritto molte poesie.
Ma la più importante non l’ha mai messa su pergamena.
Era una poesia senza forma,
fatta di sospiri, di silenzi trattenuti tra le tende,
di notti in cui l’inchiostro era troppo stanco per diventare parola.
“Non scriverò più.
Non perché non abbia nulla da dire,
ma perché ciò che sento
ha imparato a restare in silenzio con me.”
Nessuno la lesse.
Nessuno la recitò nei templi,
nei banchetti,
nelle aule del sapere.
Eppure —
quella poesia vive ancora.
Nei gesti piccoli delle donne che si appartano.
In chi apre un quaderno e non scrive.
In chi sente qualcosa fiorire e non sa dargli un nome.
“Ci sono versi che esistono
solo perché non li hai scritti.”
Zhu non chiese mai la fama.
Forse non chiese neppure amore.
Chiese solo di non essere cancellata.
E ora, anche se nessuno la cita nei manuali,
anche se la sua tomba non ha lapide,
qualcuno la sogna ancora.
Una ragazza.
Una lettrice.
Una voce interrotta.
E tra le pagine che non volle scrivere,
ce n’era una che, forse, avrebbe lasciato leggere:
??u chéng? – Poesia improvvisata
Yuánwén (testo originale in pinyin):
J? huí hu? xià zuò chu? xi?o,
Yínhàn hóng qiáng rù wàng yáo.
Chóu jué cuì yú f?nsh?u hòu,
Y? zh? nóng yàn lù xi?ng sh?o.
Traduzione:
Più volte sotto i fiori ho suonato il flauto,
guardando la Via Lattea oltre il muro rosso, lontana.
Il dolore dopo l’addio al palanchino di giada—
un solo ramo, fiorito, brucia nella rugiada il suo profumo.
Là dove finisce la pagina,
comincia la sua eredità.
Un fiore.
Un vuoto.
Una poesia non detta –
che oggi possiamo finalmente leggere.
Appendice – Parole salvate dal fuoco
Frammenti scelti dalle poesie di Zhu Shuzhen
(testo originale in pinyin e traduzione poetica italiana)
Le poesie che seguono sono frammenti autentici attribuiti a Zhu Shuzhen, raccolti e trascritti tra il XII e il XIII secolo, e sopravvissuti a secoli di silenzio. I testi provengono da copie manoscritte conservate in antologie poetiche della dinastia Song, tra cui lo Shuzhen ji, nonché dalle edizioni raccolte nei secoli successivi. Le traduzioni mantengono un tono lirico coerente con lo stile dell’opera narrativa.
Ch?n rì – Giorno di primavera
Testo originale (pinyin):
Ch?nti?n zh? chù j? rén cháng,
Y?u yàn f?i lái wàng bú kàng.
Rì zhào hu? sh?ng hu? jiù làng,
Y?u rén bù zh? n?rén cháng.
Traduzione poetica italiana:
Dove arriva la primavera, tutti ne gioiscono.
Ma rondini volano via senza guardarmi.
Il sole accende i fiori, e tutto sboccia,
tranne il cuore di chi non conosce la donna.
2. Yè s? – Pensieri nella notte
Testo originale (pinyin):
Rén jìng yè sh?n xi?ng j?n pi?n,
Tán x?n méi y? shuì y?n qi?n.
W? x?n rú shu? yíng f?i yuàn,
Zh? y?u hu? xi?ng zài ji? lián.
Traduzione poetica italiana:
Nel silenzio della notte, il profumo è più forte.
I sogni sfuggono, come parole mai dette.
Il mio cuore è acqua, e non ha desideri —
solo il fiore sa cosa resta sul cuscino.
3. Wútí – Senza titolo
Testo originale (pinyin):
Y?yè q?ngf?ng huà x?n x?n,
Rénsh?ng rú mèng sh? sh?n chén.
Wèng y?ng qíng s? huái y? shì,
Zh? yú f?ng y? yì cóng rén.
Traduzione poetica italiana:
Una brezza di sera cambia i miei pensieri.
La vita è un sogno che diventa pioggia.
L’ombra del desiderio si perde nel mondo —
e il mondo non resta con chi ha sentito troppo.
4. Qi? yè – Notte d’autunno
Testo originale (pinyin):
Bìng chuáng wú shuì yè cháng cháng,
Q?ng l?ng d?ng gu?ng ròu ruò huáng.
B?i x?n bú y? rén tóng shù,
Zh? y?u f?ng y?n y?n zh?ncháng.
Traduzione poetica italiana:
Malata, insonne, la notte non finisce.
La lanterna gialla trema appena.
Il mio dolore non sa raccontarsi,
solo il vento sembra capire.
5. Mù sè – Crepuscolo
Testo originale (pinyin):
Lù hu? sh?ng chù jiàn y? rén,
Y? jìng hu? hu? mò xiàng chén.
Bù shì ch?n gu?ng liú liàn chù,
Zh? yóu gu? y?ng y? wú chén.
Traduzione poetica italiana:
Tra i fiori bagnati, vidi una figura.
Poi solo nebbia, silenzio, crepuscolo.
Non era la primavera a lasciarmi indietro —
era l’ombra che tornava, e io che non tornavo mai.
Nota filologica
Le poesie di Zhu Shuzhen sono giunte fino a noi in forma frammentaria. I manoscritti e le edizioni più affidabili includono lo Shuzhen Ji e le antologie successive pubblicate in epoca Ming e Qing, oltre ad apparizioni minori nelle raccolte di poesia femminile compilate nel XIX secolo.
Le versioni in pinyin e i riferimenti testuali provengono da:
Women in Ancient China (Rowman & Littlefield, 2019)
Images of Women in Chinese Thought and Culture
Zhu Shuzhen Studies, volumi critici in lingua cinese (inclusi allegati “Zhu Shuzhen – Wikipedia” e “The Epoch Times – Dà Jìyuán Shíbào”)
The Iowa Review, traduzioni critiche accademiche in inglese
Note
Questa storia è nata in silenzio,
come nascono le cose che non sanno se saranno accolte.
È nata da una poesia che ho letto per caso,
in una lingua che non mi apparteneva
e che pure mi riconosceva.
Zhu Shuzhen è una voce che non ha mai cercato il centro.
È rimasta ai margini della storia, tra le stanze in cui si scriveva di uomini,
nei corridoi dove i suoi versi venivano bruciati,
nelle mani delle donne che non potevano firmare il proprio nome.
Eppure è rimasta.
In 339 poesie sopravvissute.
In qualche traduzione scomposta.
In chi, oggi, leggendo tra le righe, riesce ancora a sentirla parlare.
Questa non è una biografia, e nemmeno un romanzo.
È un gesto di ascolto.
Un tentativo di stare con lei,
non per spiegarla,
ma per tenere compagnia alla sua assenza.
I capitoli che avete letto sono stanze immaginarie,
luoghi intimi costruiti con ciò che la sua voce ha lasciato cadere,
con i silenzi tra una parola e l'altra,
con i crisantemi che fiorivano quando nessuno guardava.
Non so se tutto ciò sia esatto.
Ma so che è vero.
E so che chiunque abbia sentito la necessità di scrivere
senza sapere se qualcuno avrebbe letto —
ha già incontrato Zhu Shuzhen,
in qualche modo.
Grazie per aver camminato con me attraverso queste stanze.
Fonti e letture utilizzate
Questa narrazione si basa su una combinazione di fonti accademiche, traduzioni poetiche e documenti storici. Tra i testi consultati:
Chunxiao Xing, The Burden of Female Talent: The Poet Li Qingzhao and Her History in China. Harvard University Asia Center, 2020.
Beverly Bossler, Women in Song and Yuan China. Rowman & Littlefield, 2021.
Images of Women in Chinese Thought and Culture: Writings from the Pre-Qin Period through the Song Dynasty, a cura di Robin Wang. Hackett Publishing, 2003.
Women in Ancient China, a cura di Bret Hinsch. Rowman & Littlefield, 2018.
Studi critici e biografie in lingua cinese (Zhu Shuzhen shiji, Zhongguo lidai ming nü zhuan, Da Jiyuan shibao zhuanlan, Wikipedia)
Traduzioni poetiche e analisi in riviste accademiche (JSTOR, Academia.edu, CNKI, Project Muse)
WHP Readings – Women in Song China (Lexile 920L e 1130L)
Picturing Parental Love for Girls in Song (960–1279), Nan Nü, 2010
Tesi e saggi scolastici: Simple Analyses on Reading of Women in Song Dynasty, e altre letture filologiche contemporanee.