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La tua prima luna Pt.1
Questa è la tua prima luna
che vedi fuori di casa,
sapendo di non tornare.
Oggi sei uscito e ti sei domandato:
ma dove sto andando e che cosa farò?
Sei finito in un prato, mangiando una mela
comprata passando dal centro,
dove i tuoi amici parlavano di donne e di moto
e tu ti fumavi
la gioia di essere riuscito a fuggire di casa,
portandoti dietro soltanto
la voglia di non tornare.
(Claudio Rocchi – Viaggio – 1970)
Erano le sette del mattino e pareva ancora notte.
Il tram della linea nove giunse al capolinea: dodici passeggeri assonnati, con occhi vacui, scesero con lui.
Infreddoliti nei loro pastrani, si avviarono con passi rapidi verso il fondo della strada, scomparendo alla vista tra sagome nere di officine immerse nella nebbia.
Era la periferia estrema, quella: un presidio di confine, un margine dove la città diradava nella terra di nessuno.
Un avamposto di prefabbricati grigi alti dieci piani, edificati tra cemento armato e pareti di cartongesso, dominava una campagna annegata in quel mare di un candore iridescente e fermo.
Il luogo era silenzioso, ancora gravido del sonno della notte; le luci si accendevano in ordine sparso nelle finestre dei caseggiati.
Pigramente si ridestava un’umanità di storie semplici: di caffè caldo nelle moka, di biscotti inzuppati nel caffellatte, di parole alternate a sbadigli, di corpi intorpiditi, strappati di malavoglia al tepore dei letti.
Dalla lontana tangenziale giungeva l’eco del traffico mattutino, con un brusio remoto di motori fermi alle code dei caselli.
Era il giorno del compito in classe di matematica, ma lui quella mattina non era preparato e sceglieva di rinunciare.
In verità, era da molto che aveva smesso di essere pronto, quindi saltava puntualmente gli appelli: era un modo per prendere tempo, per rimandare l’inevitabile resa finale e la caduta.
Stava indietro col programma da mesi, impossibile rimontare quella voragine di mancanza.
L’anno scolastico ormai era perso, così aveva adottato una forma di frequenza selettiva: compariva in classe unicamente per le materie che amava.
Purtroppo, matematica e chimica non erano tra queste.
Dentro di sé osservava un paesaggio desolato: più nebuloso e ostile del muro di nebbia che lo circondava, difficile capire dove stesse andando o ritrovare un orientamento.
Percorse la strada finché divenne un viottolo sterrato che si addentrava nei campi: alte siepi e sterpi candidi di brina costeggiavano il sentiero; alberi spogli tendevano verso l’alto rami come dita adunche e nere.
Si lasciò alle spalle la città, le case e i suoi rumori, fu avvolto da un silenzio assoluto.
Nell’avanzare, solo il fruscio ritmato del suo respiro e dei passi sul terreno scabro e gelato; la solitudine era divenuta la sua compagna preferita, la complice delle sue fughe, il suo placebo per i mali dell’anima.
Qualcosa dentro era cambiato, come il sedimentarsi di una polvere minuta che gli aveva velato l’anima, fino a divenire una coltre che gli impediva il respiro.
Allora, per non soffocare, aveva cominciato a fuggire.
Prima esteriormente: come i capelli che ora sfioravano le spalle, come i jeans scoloriti con gli orli sfrangiati dall’uso, o le maglie sformate dai gomiti consunti che gli cadevano come tuniche, divenuti una divisa.
Indumenti da cui si separava solo per consegnarli alla lavatrice di sua madre, che glieli strappava di dosso quando iniziavano a puzzare di cane bagnato.
Di pari passo gli era cresciuta l’insofferenza, la sensazione soffocante di avere corpo e mente chiusi in una pelle di due misure più stretta della sua taglia.
Come una strana allergia che gli provocava un rigetto per le azioni obbligate del quotidiano: i gesti svuotati di senso, il rituale ossessivo che ti riempiva la vita senza lasciartela vivere realmente.
Un carico di atti e rapporti che altri avevano programmato per lui: come se gli avessero acquistato, senza neppure avvertirlo, una villa con cinquanta stanze, di cui non sapeva che farsene, lasciandogli il mutuo da pagare per il resto della vita.
Gli altri, quelli che gli vivevano intorno e che regolarmente continuavano a fare ciò che andava fatto, li guardava con un filo di invidia, perché a loro riusciva di compiere qualcosa che a lui non riusciva più.
Ne ammirava l’energia e la motivazione che gli erano divenute estranee: sempre pronti a impegnarsi nel fare cose, con in testa un progetto o un’idea precisa di cosa desiderare.
Lui era sempre distratto da qualcosa che non sapeva definire, o dalla voglia di essere o andare da un’altra parte.
Le sue giornate iniziavano presto: si alzava col buio, con la scusa di camminare per tenersi in forma e arrivare al liceo che distava una decina di chilometri, un’abitudine che aveva preso al tempo in cui girava ancora con Nella e che aveva mantenuto quando tra loro era finita.
Era iniziata allora la storia di “tagliare” alla prima ora di lezione.
Usciva di casa intorno alle sei e mezza del mattino, raggiungeva in bus la casa di lei, poi insieme prendevano un tram e attraversavano la città fino alla metà di via Bologna, prima dell’opificio dei tabacchi, dove stava il liceo scientifico a cui era iscritta.
La lasciava con un bacio sulla soglia dell’istituto; il sapore del suo rossetto gli faceva compagnia al ritorno, sul mezzo che lo portava alla sua scuola, posta all’estremo opposto della pianta urbana.
Certe mattine, la voglia di rivederla al più presto era così forte che rinunciava a tornare indietro: l’aspettava per cinque ore fino al termine delle sue lezioni.
Trascorreva il tempo camminando per il quartiere, vagando nei pressi della scuola.
Solitamente non aveva abbastanza soldi per entrare in un bar e chiedere un caffè per scaldarsi; quelli che aveva in tasca bastavano appena per i biglietti dei mezzi del ritorno.
A volte faceva un freddo cane; seduto su una panchina di marmo gelido sul corso Regio Parco, in riva alla Dora, iniziava gli esercizi di respirazione yoga: la tecnica “Ujjayi” permetteva di canalizzare il prana per aumentare la temperatura del corpo.
Per ingannare l’attesa leggeva qualcosa che si era portato: I vagabondi del Dharma di Kerouac o Siddharta di Hesse, libri che, come quel sole anemico affacciato da un cielo opaco, non scaldavano il corpo, ma almeno consolavano lo spirito e alimentavano la sua voglia di fuga crescente.
Quando veniva l’ora di uscita dalle lezioni, amava leggere negli occhi di lei la sorpresa di trovarlo ancora lì: si illuminavano di gioioso stupore e di bonario rimprovero al tempo stesso.
Gli gettava le braccia al collo e la lingua in bocca: “Che matto! Mi hai aspettato tutta la mattina. Hai tagliato ancora. Incosciente! Ti farai stangare alla fine.” gli sussurrava stringendolo a sé, mentre lui affondava il viso sul suo collo caldo, respirando il profumo alla mela verde dei suoi capelli.
Ma questa era una storia passata.
Ora, fuori, vagava senza una meta precisa, a piedi o su un mezzo pubblico, alla scoperta di angoli ignoti della città in cui era cresciuto, senza rivelazioni.
(Continua)