Io una persona come Nazareno Miceli mai l’avevo vista in vita mia e di gente bizzarra in vita mia ne conobbi eh, trent’anni in fabbrica a Torino travagliai, eppure oggi sulla strada per casa, sempre colma di fango e lunghe tracce lasciati da carretti e cavalli ci pensai, senza motivo , così, la mia testa pensò a lui e alla bizzarria della sua vita e ora voglio come dire , “imprigionare nell’inchiostro, nelle parole, su un pezzo di carta questo ricordo di lui , queste memorie per così dire , non lo so perché ma voglio farlo, accussi coccadunu ca parra e dici ca non studiau e nun sacciu scriviri si sta mutu ca a Turino liggeva tutti i iorna ne pausi mentri l avutri fumavano parigi parigi.
Come tirava a campare Nazareno Miceli nessuno lo sapevo dopo aver lasciato tutti i suoi beni ad un vecchio orfanotrofio d’Agrigento, viveva di baratto per quel poco che riusciva a barattare e si cibava d’avanzi o cibo offerto, si vestiva con stracci , viveva in una stalla tra merda e culi di muli e la sua barba curata e i capelli rossi molto corti erano ormai un lontano ricordo, pareva davvero il Nazareno, quello famoso però ben più noto di lui che imprecavo in fabbrica o che impreco quannu me mugghieri non cocia bona a pasta.
I più in paese non si chiedevano cosa fosse successo a Nazareno, altri riempivano le loro giornate creando trame e pettegolezzi degni di un libro o di un dramma teatrale, di dramma teatrale ne vidi solo uno io a Torino, a me piacevano queste cose da giovane, “il re Lear” , bellissimo era.
Il suo cambiamento avvenne un po' come avvenne il mio desiderio di scrivere di Nazareno e ricordarlo, così, all’improvviso, senza apparente motivo.
Prima del suo cambiamento, Nazareno partì, senza meta e per mesi nessuno lo vide o ebbe notizie latitò tra boschi e macchie e tornato come un fuoco divampava nei suoi occhi una luce, io ero tornato da Torino per andare a trovare la mia povera madre giusto qualche settimana e lo vidi arrivare in piazza sbraitante, spiritato, partutu i ciriveddu come diciamo noi qui in quest’isola maledetta dal Signore, niente coppola, niente vestiti era mezzo nudo, unto e fiteva com’un cani vagnatu , ricordo che diceva uno dei vecchi del circolo degli operai che standogli vicino ne aveva sentito a pieni polmoni l’odore.
Io ero sbigottito e pensai al benvenuto datomi a Camastra dopo anni dalla mia partenza.
Nazareno si dileguò e non si fece vedere per giorni.
In quei giorni io ero indaffarato davvero e tutto pareva tranne una vacanza la mia, mia madre puredda stava male, la demenza la sta consumando e c’erano giorni in cui mi taliava e mi diceva, cu si? Ma frati totucciu?, lui era morto da bambino per un’appendicite, Totò vena cca va ccatta u pani ppa mamma, badava a lei una donna d’origine tunisina figlia di pescatori che da tempo abitavano Agrigento minchia se era bedda idda, sempri a taliava cu tuttu du fazzoletu ncapu a testa smaniava quannu a videva , la cosa era reciproca e qualche volta sutta i macchi d’alivu ci dedicavamo alla nobile arte dell’amore; bei tempi.
Arrivò il giorno in cui mia madre non si svegliò più e nella notte andò a raccogliere fiori in paradiso con gli angeli. Il funerale fu umile, la chiesa di Camastra non era piena di gente, solo gli amici stretti, qualche lontano parente e la mia amante, sono figlio unico quindi allora come ora non avevo fratelli, nessuno, mi duleva u cori sembrava pugnalato su ogni lato ma al tempo stesso uno strano conforto giunse dalla morte di mia madre, lei non soffriva più.
Nazareno Miceli presenziò al funerale, stava fuori, il prete non voleva profanasse con la sua sporcizia la casa di Dio e lui di contro rispondeva che Dio stava in tutte le cose non solo in chiesa. Stette fuori al freddo, attese che la bara uscisse fuori e seguì il corteo tenendosi a distanza fino al cimitero, io all’epoca lo ignorai e solo ora balena nella mia mente questo ricordo di lui, semi nudo, fradicio in disparte osservare tutto allalatu il piccolo corteo avanzare nero verso il cimitero, quel luogo unito al mondo dei vivi solo dalla pietà.
I giorni successivi li trascorsi con Farah, ora ricordo come si chiamasse, bella comu u suli, l’unica luce nni ddu bbuiu ca ava divintatu a me vita.
Un giorno passeggiando fra dei terreni incolti pieni di piante di fico sentì Nazareno Miceli sbraitare, inveire contro la gente, sembrava tenere un discorso a metà fra un sermone delirante e un comizio politico, ricordo a malapena quello che diceva, signori Dio ha tutto ha messo al suo posto, i pianti, i ciura , l’avveri, i muntagni , i muntagni, urlava e alzava le mani al cielo come a volerlo toccare o a bbracciari u signuri , la folla formò un’orchestra di miii e maaah e piiii, Nazareno Miceli scattiau preciso quel giorno, non c’era più nulla da fare.
Sparì Nazareno, di nuovo e nessuno più lo rivide neanche i culi dei muli che lo scaldavano a suon di peti nelle notti d’inverno. Lasciò Camastra e mai più ritornò.
Mi piace pensare che sia ritornare a vagare per i boschi, per le macchie d’ulivi, per spiagge, che i suoi piedi abbiano toccato le ceneri dell’Etna, la pietra lavica e che al tuonar dei tuoni, al rombar del vulcano, sia stato fagocitato, come mangiato, divenuto tutt’uno con il creato, parte di quella creazione di Dio che tanto amava e che disperatamente anelava ogni giorno della sua bizzarra vita.
A stu ggiru paru un poeta davveru.
Lasciai Farah, la piantai in asso, all’epoca ero uno scapestrato e preso il primo treno tornai a Torino ritrovandomi immerso nella moltitudine ed ora mi ritrovo di nuovo qui a scrivere nella mia terra di nascita, ni sta minna ca è a terra unni nasci, di Nazareno Miceli e u riordu na lacrima chiama dee ma occhi.
Nazareno Miceli testo di Isa666