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Arrivata in palestra, scesi negli spogliatoi. Appesi il mio giaccone all’appendiabiti, tolsi la felpa, e, indossando già leggings e maglia a maniche corte, mi diressi verso la sala attrezzi.
Presi a fare gli esercizi della scheda che l’istruttore mi aveva preparato, ma la mia testa era altrove.
Ma cosa mi è preso? Certo, è un bel ragazzo, simpatico, con un bel modo di fare. Ma io sto con Andrea. Che faccio se mi chiama? Che casino!!!
Continuai ad arrovellarmi il cervello, ma alla fine la verità era una sola: Marco mi piaceva. E Andrea non mi dava più quello che volevo. O meglio, non me lo aveva mai dato.
Stavamo insieme da quando andavo all’ultimo anno di scuola media. Era stato il mio primo bacio, la mia prima volta, il mio primo tutto. E non volevo staccarmi da lui. Ma non era mai presente. Il sabato gli amici, la domenica il calcio, durante la settimana gli allenamenti e lo studio. Ero fortunata se riusciva a ricavarsi due orette il weekend per vederci. Senza parlare dei messaggi, pochi e frettolosi, e delle chiamate pressoché inesistenti.
Le mie amiche mi dicevano da mesi di lasciarlo. I miei genitori non sopportavano di vedermi triste, tanto che spesso, quando lui era impegnato ed io rimanevo in casa il sabato sera, mentivo loro dicendo che mi faceva male la testa o che ero stanca. Ma sono certa che sapessero che non era la verità.
Quando finii il programma, circa un’ora e mezza dopo, mi concessi una sauna. Tolsi gli abiti usati, mi avvolsi in un telo di cotone, ed entrai nel piccolo abitacolo di legno, costruito per accogliere al massimo due persone. In quel momento non c’era nessuno e decisi di aprire l’asciugamano, lasciando che il calore attraversasse la mia pelle nuda.
Dopo qualche minuto, gocce di sudore iniziarono ad imperlare i miei seni pieni, scendendo nel solco tra i due, giungendo all’ombelico. La sensazione mi diede un brivido di piacere.
Sentii dei passi nel corridoio adiacente e mi coprii immediatamente. Guardai la clessidra. Ormai erano passati quindici minuti.
Uscii e mi avviai verso la doccia.
Quando fui pronta, salutai le due donne che nel frattempo erano entrate negli spogliatoi e, dirigendomi verso l’uscita, controllai il telefono.
1 nuovo messaggio. Un numero che non conoscevo.
M: Ciao Fede, sono Marco. Verso le sette esco da lezione. Posso chiamarti dopo?
Il messaggio era arrivato da pochi minuti. Mi chiesi quanto gli ci era voluto per convincersi a mandarlo o se per lui era normale. Io non sapevo nemmeno come iniziare.
Alla fine risposi con un semplice ‘OK’, seguito da uno smile.
Controllavo in continuazione l’orario. Ero emozionata ed agitata all’idea di sentirlo a voce. Non ero mai stata brava al telefono. Scrivere, quello mi riusciva bene, ma parlare? Senza poter editare quello che si dice in caso di errore? Ero in ansia.
Ero appena scesa dal treno un brivido mi percorse. Era fine novembre, iniziava a fare davvero freddo. Mentre camminavo in direzione del mio appartamento sentii la tasca vibrare.
Appena vidi il suo numero, feci un respiro profondo e risposi.
«Pronto?»
«Federica. Dove sei? Sei arrivata a casa? Io sono appena uscito.» Erano effettivamente le 19:03.
Sorrisi. Aveva avuto fretta di sentirmi.
«Tutto bene. Pochi passi e sarò a casa.»
«Posso farti compagnia o ti disturbo?»
«Nessun disturbo! Abito sola.» Appena pronunciai quelle parole mi resi conto della cazzata. E se fosse stato un maniaco?
«Da sola? A sedici anni? Come mai?»
Così gli spiegai come, in terza media, avevo deciso di studiare moda, e che quell’indirizzo non c’era vicino a dove abitavo. Così mi ero iscritta a Bologna e mio padre aveva preso un appartamento per me e mio fratello. Lui però, avendo la ragazza nel nostro paese, preferiva fare il pendolare o venire, in caso di esami, il lunedì sera e ripartire il venerdì mattina. Quindi la maggior parte del tempo ero sola.
«Quindi sai cucinare!» Dedusse.
Come dirgli che in realtà ci sono giorni in cui mangio solo una scatola di cereali o altri in cui mi faccio solo un pacco di pop-corn e una birra?
«Si. A volte però mangio cose veloci.» Diplomatica, non c’è che dire.
Entrai dal portone del mio palazzo ed abbassai la voce nel parlare mentre percorrevo la gradinata che mi avrebbe portata al mio rifugio. Avevo iniziato ad amare davvero l’appartamento in cui vivevo.
Continuammo a parlare anche mentre toglievo scarpe e giacca, mentre mi lavavo le mani, mentre salivo la nera scala a chiocciola che portava alla mia camera da letto. Non smettemmo nemmeno quando mi spogliai per infilarmi il pigiama.
Lui nel frattempo aveva preso l’autobus e stava camminando verso casa sua. Mi raccontò che abitava con due coinquilini, anche loro studenti fuori sede e che anche lui andava spesso in palestra. Mi disse anche che, a Bologna, non era solo perché anche suo fratello studiava lì, ma abitava con la ragazza.
«E tu? Ce l’hai la ragazza?» Mi pentii immediatamente della domanda. Se mi avesse risposto di sì? E se mi avesse rivolto lo stesso quesito?
«No, mi sono lasciato da poco con una tipa. E tu?»
«La ragazza?» Provai a tergiversare. «No, nemmeno io.»
Rise.
«Il ragazzo.»
«Si, quello ce l’ho.»
Silenzio.
«Ti stai chiedendo perché parlo con te?»
«No, mi sto chiedendo perché non è lì con te, sapendoti sola.»
Colpita ed affondata.
«Studia a Ferrara.»
«Beh, non è così lontano.» Sottolineo. «Da quanto vi frequentate?»
«Tre anni. Tra tira e molla.» Risposi.
«Speriamo di rimanere amici allora, in caso succeda ancora.» Disse tra il serio e il faceto.
Non sapevo se ridere anch’io o dirgli di non portare scalogna. Ma la realtà era che non sapevo se sarebbe stata davvero una sfortuna.