Claudia

scritto da davide cibic
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Autore del testo davide cibic

Testo: Claudia
di davide cibic

Non avevano fatto in tempo a chiedere che lei aveva già iniziato a parlare. Erano più singhiozzi che parole, tanta era la tensione. Loro si erano messi comodi ad ascoltare: c’era chi pareva attento, chi un po’ meno; qualcuno sorrideva, altri guardavano fuori dalla finestra come se ci fosse stato qualcosa d’interessante da guardare.

Lei cominciò a raccontare. Non ne aveva voglia, si vedeva. Avrebbe voluto essere lontana da lì, il più lontano possibile. Pensò che dovevano essere belli quegli universi in cui non c’è bisogno di parlare e tantomeno di spiegare. Possibile invece che da noi si sia obbligati a descrivere, giustificare, convincere? Da noi il racconto non è mai tale, semplice e fine a se stesso; no, ci dev’essere sempre qualcosa da capire, da indagare, da chiosare. Perché non si può semplicemente narrare, perché bisogna per forza vivere?

All’inizio lei balbettava, poi si sedette: c’erano tante sedie nella sala, tutte lontane da lei. Nessuno gliene porse una, dovette prenderla da sola, dovette decidere da sola come già più volte aveva fatto nella vita.

Da seduta era più tranquilla: un po’ tutti lo capirono, anche chi guardava fuori dalla finestra per non guardare dentro la sala. Il suo racconto cominciò a prender corpo, la voce si fece più vivida, le pause meno frequenti, le parole meno biascicate.

Raccontò di come si erano conosciuti, diversi anni prima. Lei si era innamorata al primo sguardo. Lui era sicuro di sé, affabile, era bello come un dio. In sua compagnia lei si sentiva come in una teca di preziosi, come in un castello regale. Con lui non c’era pericolo che potesse manifestarsi, non c’era paura che potesse realizzarsi. Sapete quando si cammina qualche metro da terra, per cui nulla può turbarti, quando pare cioè di poter dominare il mondo senza esserne dominati? Ebbene, con lui era così. La sicurezza poi dà credito sociale: erano senz’altro una bella copia, piena di amici e di progetti. Erano felici, per dirla tutta.

Poi, arrivò il primo pugno. Lui la colpì a tradimento, sullo zigomo destro. Stranamente non urtò né pupilla né naso. Rimase tumefatta per diverse settimane: i pianti furono tanti, non abbastanza. Lei decise di rimanere a casa da lavoro: si diede per malata, credendo di mentire. Il giorno prima lei aveva scritto un messaggio a un suo vecchio compagno di classe, incrociato per caso ad un convegno sui nuovi prodotti finanziari.

Seguirono alcuni mesi senza sangue. Vivevano bene in fondo, si faceva qualche gita, il lavoro era stabile. Lei vendeva diversi prodotti; lui era saldatore, lavorava tutto il giorno e non si lamentava. Può darsi quel pugno fosse stato solo un attimo, una goccia macchiata di nero su un tessuto bianco. Del resto il male è sempre in agguato, basta saperlo ricacciare, confinarlo, disarmarlo. Non si può pensare che sia tutto perfetto: solo le stelle lo sono, ma lo sono dal nostro punto di vista, non certo dal loro.

Alcuni di quelli che guardavano dalla finestra si fecero un po’ più interessati, forse si accorsero di lei.

Il secondo pugno arrivò a causa di una forte pioggia. Quel giorno pioveva a dirotto, uno di quei rovesci che dovrebbero affogare il mondo vigliacco. Lei aveva dimenticato l’ombrello o forse non era integro, chi lo sa, le stecche forse erano danneggiate e l’ombrello non si apriva a dovere. Lui si stava infradiciando: era come un lupo travolto dalla tempesta. La colpì con un pugno, poi un secondo, gli insulti la bava l’acqua le lacrime, e il sangue di lei. Lei riusciva a reggersi in piedi ma un terzo pugno allo stomaco la fece crollare. Se ne rimase a terra, come un feto nel greto di un fiume, e arrivò un calcio, e un altro ancora, come se li avesse reclamati il diluvio. Dopodiché lui andò a farsi una doccia: era stizzito e sporco. Nel picchiare si era fatto male ad una mano. Gli doleva molto, maledetta lei.

Quella sera lei preparò da mangiare, come sempre. Di solito si specchiava prima di andar a dormire, ma quella sera non lo fece, per via dei lividi. Di solito lui pretendeva l’amore prima di andar a dormire ma quella sera non lo fece, perché lei doveva capire di aver sbagliato.

Il perdono di lui arrivò un po’ a sorpresa, qualche giorno dopo. Ma lei nel frattempo aveva già parlato con un’amica. Sara era l’unica con cui poteva parlare, del resto era laureata in legge, doveva saperne di giustizia. La giustizia però non era una cosa semplice da capire. Dicono che esistano tanti tipi di giustizia: qual era la migliore per lei? La galera, la fuga, la misericordia?

Da quella volta Sara non si fece più vedere: è scomodo soffermarsi con chi è fatto di lacrime e lividi.

Passarono due anni; qualcuno entrò in sala, qualche altro ne uscì, qualcuno aveva gli occhi lucidi, qualche altro sbadigliava.

Poi arrivarono due bambini, uno dietro l’altro. I figli portano gioia e non tolgono niente, non è possibile star male se ci sono loro. Questo era quello che lei pensava, questo era quello che lui diceva. Lui aveva raddoppiato i propri turni di lavoro; voleva guadagnare di più, diceva, perché la famiglia si era allargata e ai bambini non doveva mancare nulla. Era un padre molto premuroso, non risparmiava carezze e parole flautate; appena poteva si metteva a ninnare i bimbi e anche con lei era gentile. Ma lei aveva paura della pioggia.

Una sera lui la invitò a cena fuori. Erano anni che non accadeva. Come facciamo con i bambini, chiese lei. Lui aveva già pensato a tutto: fece venire in casa una babysitter. Lei non era d’accordo, ma non lo disse, in fondo la ragazza sembrava una persona per bene. La cena stava passando serena e cordiale, i piatti erano prelibati, l’ambiente elegante. Finché lei non chiese di rientrare: le mancavano i bambini. Un’ombra velò il volto di lui.

Il giorno dopo ricominciò a piovere. Era una perturbazione atlantica, di quelli gigantesche, che durano almeno un mese. Dicevano che forse avrebbe piovuto anche più a lungo. Un’enorme formazione scura, puntinata di saette e di venti forti.

Quando arrivò il terzo pugno i bambini erano al piano di sopra. Stavano dormendo con il sorriso disegnato sui loro visini. Il papà li aveva coccolati prima della nanna e a loro non serviva altro. Lui la colpì cercando di non fare troppi schiamazzi, in fondo non voleva svegliare i bimbi; lei cadde a terra quasi subito, gemendo come una bestia malata. Seguirono due tre quattro calci, in pancia e in testa, e lui le faceva cenno di non gridare, che i bambini dovevano dormire. Poi lui uscì, sotto quella maledetta pioggia. L’ombrello si apriva perfettamente ed era di grandi dimensioni ma lui bestemmiò lo stesso, la pioggia è come una disgrazia.

Il giorno dopo lei avrebbe voluto chiamare Sara, ma era piena di vergogna, come lo è il reietto espulso da ogni cosa. Digitò invece un altro numero, e raccontò delle violenze subite, dei pugni, dei calci, della cena, dell’ombrello, del suo compagno di scuola incontrato per caso. Ma due sere dopo lui era come un demone risputato dall’inferno, pareva che la volesse ammazzare, sbraitava che lei non era in grado di badare ai bambini e intanto calci e pugni, sangue e lacrime, che i bambini le andavano tolti, che andrebbero dati alla babysitter. Questa volta i bambini sentirono: chissà cosa pensarono quelle piccole creature.

E chissà cosa penserebbero adesso nel vedere la propria mamma con tutti quei signori, radunati in quella grande sala, con quelle grandi finestre da cui guardare fuori. Penserebbero che la mamma è stata coraggiosa, che ha saputo parlare, che ha saputo amare se stessa e i propri figli.

Alcuni signori si alzano, finalmente è finita. Claudia viene invitata a seguirli: c’è un lungo corridoio da percorrere oltre la sala. Le manette non servono, dice uno di quei signori, che ha uno sguardo buono, molto diverso da quello che aveva il papà quando picchiava la mamma.

Che strano, pensa Claudia, ogni tanto nella vita occorre esser prigionieri, per poter essere liberi.

Claudia testo di davide cibic
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