Un ultimo chicco di caffè

scritto da Simo Dea
Scritto 4 anni fa • Pubblicato 4 anni fa • Revisionato 4 anni fa
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Autore del testo Simo Dea

Testo: Un ultimo chicco di caffè
di Simo Dea

Mancavano ormai pochi giorni alla fine dell’anno scolastico, il mio quarto per essere esatti, tutti erano già in evidente trepidazione.
In quegli ultimi momenti passati sui pullman ancora colmi di studenti, si respirava aria di spensieratezza e malinconia.
Molti dei discorsi fatti dai ragazzi giungevano alle mie orecchie, nonostante i forti rumori provocati dalle strade della città di Torino.
C’era chi, con gli amici, si vantava del fatto che avrebbe trascorso l’estate nella villa al mare dei genitori, chi si lamentava di essere stato rimandato a causa di quella dannata matematica e chi, invece, con una risata, cercava di prendere più filosoficamente il fatto di aver perso l’anno.
Da tutt’altra parte, invece, vagava la mente degli studenti di quinta, i quali pensieri e paure erano rivolti all’imminente esame di maturità.
E infine vi ero io, che in quell’estate del 1982, avevo come unico obbiettivo quello di trovarmi un lavoro, in modo tale da riuscire a mettermi da parte un po' di soldi.
Il motivo era presto detto, poter pagarmi l’anno dopo, il viaggio post-maturità.
Era tempo che ne parlavamo io e il mio gruppo di amici.
Erano ragazzi che conoscevo fin da bambino e, per quanto non frequentassimo gli stessi istituti, non abbiamo mai smesso di vederci.
Certo, mi rendevo ben conto che mancava ancora più di un anno e tante cose sarebbero potute cambiare, ma sinceramente la cosa non mi preoccupava…ci eravamo fatti una promessa e sapevo che sarebbe stata mantenuta.
New York era la tappa che avrebbe concluso il nostro lungo viaggio scolastico e sancito anche l’inizio di una nuova parte della nostra vita. Una città così tanto distante, da sembrare quasi irraggiungibile, che potevamo ammirare solo nei film e sentirci raccontare attraverso le parole dei libri.
In una di quelle solite fermate che costringeva il pullman ad arrestare la sua corsa, notai, guardando attraverso il finestrino, un foglio scritto a mano e affisso alla porta d’entrata di un piccolo bar.
- “Cercasi aiutante, anche senza esperienza” - così recitava il cartello.
Colsi la palla al balzo, scesi in fretta e furia dal bus, facendomi spazio tra zaini e cartelline da disegno.
Un ultimo chicco di caffè, questo era il nome del locale.
Al suo interno giusto un paio di tavolini, il bancone e un angusto retro dove vi erano la porta del bagno e del ripostiglio.
Chiesi qualche informazione in più al barista, un uomo di ormai una certa età, con capelli e pizzetto grigio e con in mano una sigaretta quasi ormai finita, scoprendo così poi che era lui l’unico gestore e proprietario del locale.
Sul bancone, un posacenere che quasi straripava. Nell’aria un forte odore di fumo.
Non mi fece molte domande, voleva solo sapere il motivo per cui, un ragazzino che neanche aveva finito gli studi, voleva già iniziare a lavorare.
Gli dissi del viaggio in programma e del fatto di voler guadagnare abbastanza da potermelo permettere.
- “Capito” - mi rispose con aria quasi strafottente, dicendomi poi che avrei iniziato il lavoro dopo la fine della scuola, il pomeriggio stesso dell’ultimo giorno.
Questo, significava niente festeggiamenti insieme ad amici e compagni in centro città, come tutti gli studenti erano soliti fare alla fine di ogni anno scolastico.
Accettai nonostante la fastidiosa condizione imposta.
Le prime settimane di lavoro furono le più difficili, dovetti imparare e capire quel mondo così diverso dalla scuola.
Mentirei a me stesso se dicessi che non ho mai avuto la tentazione di mollare tutto, di andarmene e chiedere i soldi per il viaggio alla mia famiglia.
Oltretutto, il brutto carattere del mio capo, il Signor Carlo Buratti, non rendeva le cose migliori.
La cosa che però, mi spinse a rimanere e dare da lì in poi tutto me stesso nel lavoro, non fu New York o quella promessa fatta tra 5 amici d’infanzia…ma fu invece, proprio quel vecchio scorbutico.
Una sera, poco prima della chiusura, mi chiese nuovamente il motivo per cui stessi lavorando.
- “Per pagarmi il viaggio a New York, come le avevo già detto” - gli risposi.
- “Bene, volevo essere sicuro che te ne ricordassi” - mi disse lui, accendendosi in contemporanea una delle sue solite sigarette.
- “Scusi, che cosa intende dire?” - domandai.
- “Sto dicendo che, se molli tutto solo perché sei stanco o per il mio carattere di merda, come puoi pensare di poter lasciare anche un minimo segno in questo mondo?” - mi rispose.
- “Un segno…nel mondo?” - pensai, chiedendomi cosa intendesse.
- “Sai, durante la guerra, ho visto così tanti ragazzi della tua età, o poco più grandi, morire sotto i colpi di fucile dei nemici.
Costretti a combattere una battaglia voluta da qualcun altro. Tra l’altro fu proprio in quel periodo che iniziai a fumare, probabilmente per cercare di calmare lo stress e la paura.
Voi giovani di questa generazione, siete liberi di scegliere il vostro destino.
Ed è una fortuna immensa. Spero che tu possa capirlo” - continuò lui.
Rimasi in silenzio per alcuni secondi.
- “Si…certo che lo capisco” - risposi poi con tono più forte.
- “Mi tolga solo una curiosità…il suo lascito al mondo, è questo bar, vero?” - gli chiesi subito dopo.

- “Esatto…o almeno…così mi piace pensare. Quando tornai a Torino nel ’45, presi il posto di mio padre nel gestire questo locale. Ritenevo fosse un buon modo per ricominciare e anche…bè…per ringraziare di essere ancora vivo.” - mi rispose così, il signor Carlo.
- “Cazzo però, parlandoti in questo modo sembro il solito vecchio rompipalle” - concluse, scoppiando poi in una fragorosa risata.
Risi anche io, chi si poteva aspettare un discorso come quello da un tipo così scontroso.
- “Quindi ragazzo, ci vediamo domani o devo trovarmi un altro assistente?” -
Sorrisi.
- “Non si preoccupi, ci vediamo domani” - gli risposi, chiudendomi poi la porta del locale alle mie spalle e dirigendomi verso la fermata del pullman.
Da quel giorno in poi, il tempo sembrò scorrere più in fretta.
Probabilmente, la cosa che mi colpì di più di quella professione fu proprio il rapporto così profondo che si andava a creare con alcuni clienti.
Dei perfetti sconosciuti, ma che, con il passare del tempo, diventavano parte della tua routine quotidiana.
Una veloce chiacchierata, una semplice conoscenza che sarebbe poi diventa amicizia, segreti rivelati e storie di vita.
I tre mesi passarono, settembre arrivò.
Il primo giorno di scuola, poco prima che la campanella dell’ultima ora suonasse, la nostra insegnante ci porse una domanda.
Le sarebbe piaciuto sapere che cosa avremmo fatto una volta conclusosi il nostro ultimo anno scolastico, quale fosse il futuro a cui aspiravamo.
Alzai di getto la mano, senza pensare.
- “Voglio fare il Barista” - risposi sorridendo.
Chi si poteva aspettare, che durante quella calda estate dell’82, mi sarei innamorato di un semplice lavoretto estivo.
Un ultimo chicco di caffè testo di Simo Dea
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