Contenuti per adulti
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Profumo d’inchiostro su carta n’pianto,
Triste per il mio scritto.
Sospiri, parole, grida, hanno ucciso
Codesta tela dannata a poesia;
E son io l’assassino.
L’occhio m’è nero marcio:
Non avevo scelta alcuna, e me ne doglio;
Lungi l’mio vuole d’esser omicida
Del canto ch’è m’è fronte.
Ma sadico; ripeto,
E l’ferro in punta, lacera l’papiro
Come una lama recide l’respiro
E codesto foglio, inerme a un diavolo,
Lagrima sangue nero
Su l’intero tavolo.
Testimone? La luce:
Irradia questa scena d’omicidio,
Quest’obitorio con maschera a studio.
Rumore? Fiato. Tic, tac.
Battito. Nulla. Fiato...
Il foglio gemente al bisturi inquieto.
E ripete... e ripeto...
Ronzio. Una nuova testimone
Compare rapida a questo massacro.
Posa sulla lucerna:
La mia vista su ella.
Non mi sta infastidendo.
«La luce calda e fioca t’è attraente...
Mia piccola sorella;
Compagna di vita, dolore e noia.
Lascia che ti doni sollievo e aiuto.»
Muore. Crocifissa sotto l’pollice.
Un soffio. Solo più un ala e due zampe.
Non esiste più. Ho ucciso la zanzara;
E non ha opposto resistenza alcuna.
Mi stava dando noie?
No. Perché allor l’ho uccisa?
Per pietà, per istinto l’ho recisa.
Più non vuole, soffre, ha noie o vita: Sì.
Ecco perché or’ giace!
L’ho osservata e mi implorava morte!
Così, come un Dio, le ho donato pace.
«Serena, o dolce amica, quanta invidia!
Eri così leggera, inerme, lieve...
Come il fiocco su d’un campo di neve.
Non so se tu sapesti mai l’amore,
Ma l’ho reciso prima che sbocciasse.
Io l’ho fatto per te, per il tuo bene.»
Sorrido, perché non son io l’cattivo:
«La Natura, ecco, lei è la regina,
Io son sol pedina sulla scacchiera,
La forza, la mano dell’omicidio.
Eppure, o mia fragile compagna...
Non mi stavi recando alcun fastidio.»
Ecco ch’io sgomento comprendo e apprendo.
Perché dunque a la sua morte ho sorriso?
Perché l’riso e presente ancor n’volto?
Questo ghigno... per sua fine? o per l’atto?
Amica... volevi tu giungere a tomba?
O son stato io ladro:
Il lui che t’ha privato di volontà?
Ecco, il riso maligno m’è svanito.
Il mio viso è terrore,
Occhi da predatore,
Come un gufo guardingo ne la notte.
Ora zanne i denti, come lupo; un orco.
Fu la Natura a trarne via lo fiato...
O fu mia natura a eseguirne il fato?
Sono Dio, ma sterile,
Perché la vita non è tra i miei doni.
Né amore, né speranza.
Né figli — ché un figlio è morte annunziata.
Posso crear solo ciò che si spezza:
Il Caos. Il Nulla. Il Pensiero che scava.
Io penso e voglio e agisco.
E t’ho pensata e voluta e finita.
Io. Non quella Natura.
Io, il mio desiderio.
Carne imperfetta ha giocato al Creatore.
Nessuna legge, bisogno o dolore
Mosse codesta mano.
Solo me stesso, l’io, me medesimo.
Solo un mostro vuoto chiamato: Umano.
Questo l’mio commesso?
Quale punizione? Chi m’è giudice
Di codesto assassinio che m’è impresso?
Nessuno? Anzi. Tutti, ed io con loro.
Dunque... quale sarà mia redenzione?
Cosa potrà dar riscatto a quell’azione?
Pensa. E penso. Pensa. E penso. Ma non v’è:
Non v’è perdono a chi la vita cessa,
Non v’è riscatto a l’opera compiuta.
La morte è fine, e tale resta; e muta,
Perfetta dona il gelo di promessa.
Resta la rimembranza,
Quell’acida amarezza
Col seguente rimpianto.
Quanto mi duole, o dolce mia sorella,
Compagna effimera di pena e quiete...
Non volevi, sì l’me novo: perdono.
Ma fu mia mano, che ruppe l’tuo suono.
Ti uccisi con un dito,
Decisi il tuo destino per far scena
Come l’imperatore nell’arena.
Ed or’ sparita sei.
E non posso, né so, riportarti qui.
Tutto mi sfugge. Mi arrendo a l’assenza,
Che sola m’è vittoria sopra il senso.
Il nulla è vincitore.
Io solo son rimasto,
E quanto grava, o Dio, l’essere umano.
Se fossi morto io, e non tu, amica...
Forse, lontano, ci sarebbe un figlio
Ad aspettar: una casa; un abbraccio.
E invece il vuoto. Nulla n’è rimasto.
Quel genitore sparso:
Nessun saprà più mai
Che in lui morì qualcosa di più vasto.
A ucciderlo fu il caso? Fu il destino?
No. Nulla. Puro vuoto, senza volto.
E così per te. Eri innocente, lieve,
Eppur crollasti con un gesto breve.
Perdono... Se mai giunge, sarà tardi.
Non ho parole né salvezze e speme.
Tutto quello ch’io possa,
È incider epitaffi,
Versi che t’inchiodano all’immortale.
Ma l’eternità tale
Sarà tua gabbia e fine,
Così il me boia, la croce e le spine.
Eravamo compagni,
Di luce e d’ombre, di notti e di giorni.
E questo, m’era errato, me ignorante.
Ma non più. M’è mutata mente e pelle,
E ti prometto, amica:
Ti giungerò, domani,
In men che non si dica.
E torneremo a stringerci nel nulla:
Compagni ancora, sì, ma or’ di morte.
E assieme, mirando seduti l’vuoto,
Ci chiederemo perché:
Perché mai non lo abbiamo fatto prima?
Perché cercammo senso nel dolore?
Perché la mano scelse di colpire?
Perché tacemmo quando urlava il cuore?
Perché ridemmo? Perché non piangemmo?
Perché lasciammo tutto ciò svanire?
Perché la vita nacque? Perché muore?
Perché esiste inganno come l’amore?
Perché il respiro è ansia?
Perché la luce acceca, e il buio pesa?
Perché sognammo pace,
Se il mondo è guerra accesa?
Perché salvarci, se la fine attende?
Perché tentare ancora?
Perché scrivere versi sopra il nulla?
Perché, se tutto tace,
Sentiamo solo urla?
Scriverò queste domande sul foglio
Ch’ho dinanzi: compirò quest’opra vana.
Conscio. Lucido. Solo.
E il gesto mio sarà d’una bellezza
Amara, come l’eco del silenzio.
Ché non serve a nulla; dunque, lo farò.
Son io il vincitore nella resa!
E, finito, rimango in attesa,
Della fine di quest’esperienza,
Che, di vita, non ne ha
La minima presenza.