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Milène pulì la teiera esternamente, era polverosa, come se nessuno l’avesse mai usata. All’interno, un sottile segno che girava per l’intera circonferenza lo smentiva. Era stata usata ed era tenuta bene, con il suo vecchio manico in bambù consunto.
La posò insieme alle altre, in fila, ben ordinate. Erano tutte di fattezze diverse, di stili e di materiali diversi, ma avevano un profumo in comune, un profumo di tè passato, un passato buono.
Era bello guardare oltre la finestrella dalle tendine tutte pizzi e farbalà che rivelava un cielo terso e una montagna che entrava di prepotenza nella stanza.
A sbarrarle la strada, i suoi tre vasi di gerani verdi, bianchi e rossi, come una bandiera, a sventolare, a ricordare la sua terra natia.
In quella soffitta, che sembrava nascondere una varietà di oggetti dentro le scatole o negli antichi stipi dalle maniglie arrugginite, difficili da aprire, lei ci stava passando ore. Li apriva tutti e tirava fuori quello che c’era, per dargli nuova vita.
Prima li puliva, poi, li guardava, come se si fosse presentata, come per fare conoscenza.
Aveva cominciato così, a mettere ordine.
Poi, il bello doveva ancora venire.
Da quando era arrivata in quel paesino francese in villeggiatura, poco lontano dal confine italiano, un po’ per scherzo, un po’ perché ci credeva sul serio, aveva iniziato a partecipare alla vita sociale del paese, a cucinare spaghetti che si mescolavano alle 'frites' delle feste patronali, a organizzare tombole e giochi divertenti per i bambini o ‘le camminate delle fate’ come le chiamava lei, intorno ai boschi, a leggere favole, mentre si guardavano le stelle, sdraiati sulle coperte, con il nasino all’insù.
Intanto quella casa strana, che sembrava la casa di una fattucchiera, uscita dalle pieghe del tempo o dal racconto dei Fratelli Grimm, stava suscitando in lei uno strano fascino.
Milène era attratta da quella bicocca e pensava che avrebbe dovuto essere la sua. La sua casa.
Ci scherzava su, con una sua cara amica che era venuta a trovarla, in quel piccolo appartamentino, che prendeva in affitto ormai da dieci anni.
‘Le case sono come gli uomini’ disse alla sua amica, con un’aria sorniona e Marcella la guardò affettuosamente, pensando: ’Milène…!’’ poi, scuotendo la testa: ’Chissà cosa mi propina adesso!’
Convinta, Milène continuava: ‘Sì! Le case sono come gli uomini…Se lo vuoi, prima o poi, diventa tuo’.
Marcella si metteva a ridere, poi seria: ‘Non è fattibile, è fuori discussione!’
Anche lei, poi, si rassegnava alla cruda realtà e rifletteva.
Primo: la casa non era in vendita; secondo: era di proprietà del Comune; terzo: anche se fosse stata in vendita, il Comune avrebbe chiesto una cifra che lei non avrebbe potuto permettersi.
Ma lei, cocciuta, nel suo sogno ad occhi aperti, si vedeva all’interno di quella casa.
Aveva la sensazione che, prima o poi, lei sarebbe entrata fra quelle pareti, come se le appartenessero.
Faceva finta di rassegnarsi, beninteso, perché sapeva in cuor suo, che quello sarebbe stato il suo posto.
La storia di quella casa era conosciuta nel paese.
Un vecchio giornalista, che aveva girato mezzo mondo come inviato di guerra e aveva rischiato la pelle in tanti posti lontani, per anni aveva trascorso le sue vacanze in quel villaggio.
Aveva comprato quella casa e l’aveva riempita di tutte le chincaglierie e i ricordi dei suoi viaggi. Negli ultimi anni, si era messo a scrivere romanzi erotici che lo avevano reso ricco.
Era un personaggio famoso. Solo, senza una compagna o una moglie, né parenti, alla sua morte, il suo patrimonio era stato donato in beneficenza.
Quella casa l’aveva lasciata al Comune. Nel testamento aveva scritto solo una postilla che aveva fatto discutere i vari notai: ‘Che sia di pubblica utilità’.
In realtà, quella pubblica utilità non si era mai trovata.
Non c’era nulla di cui il paese necessitasse: una biblioteca, un teatrino, una piccola ma funzionante scuola elementare, l’éspace partenaire con la scuola di sci, l’ufficio del turismo, la piscina, e tanti altri servizi, insomma, il Comune non sapeva cosa farne, c'era tutto.
Così, nonostante una strenua difesa, la casa cominciava a piegarsi su se stessa, come una vecchia signora, s’ingobbiva, sfioriva come avesse un’allure un po’ fané, un portamento che sbiadisse.
Milène pensava che stesse intristendosi, si stava consumando, perché lei non arrivava ad abitarla e sarebbe forse addirittura crollata o un giorno avrebbe potuto anche dileguarsi, scomparire, come se la nebbia che saliva dalla valle tutte le sere a inizio settembre, quella che portava il brutto tempo e l’inizio del freddo, quella malinconia che chiudeva la gola, avesse potuto inghiottirla.
Nella peggiore delle sue fantasie, non la vedeva, scomparsa nel nulla. Non era mai esistita. E così, s’intristiva anche lei.
La casa era situata dopo la grande rotonda, proprio all’ingresso del paese, sulla via principale. Inverosimile, fuori posto.
In realtà, la casa stava affrontando un combattimento contro gli attacchi della segnaletica di ferro dell’ingresso dell’Ufficio del Turismo, contro i vari pannelli su cui campeggiavano le scritte: ‘ Benvenuti’ in tutte le lingue, contro i cartelli stradali e contro quegli orribili lampioni al neon, gialli, che davano un senso di inquietudine, soprattutto d’inverno, quando richiamavano alla memoria le luci di un paesino di miniera.
Era sorprendente, per lei, notare che, in qualche modo, per qualche strana ragione, la casa riuscisse a difendersi da quegli attacchi.
Aveva sempre quell’aria da cottage inglese, con quel giardino in piano, folto, ricco di genziane, gigli martagoni e achillea bianca, con un grande abete che sembrava vivo, come un bodyguard che cercasse di proteggerla. Sul lato, quello costruito con pietre d’ardesia che si univano ad un patio che anticipava una piccola porta d’ingresso ad arco ,bianca, come quelle che ci sono nelle fiabe, dove si entra salendo i tre scalini e poi tutto quel legno che abbracciava l’altro lato, quello con le finestre chiuse da scuri, anche quelle ad arco rivolte su una piccola corte,con tavolini di ferro che aspettavano che qualcuno si sedesse sulle loro sedie tutte sbilenche e arrugginite.
Quello che la sorprendeva davvero, era la torretta rotonda con tetto spiovente, il cappello a punta di una strega.
Come avrebbe voluto entrare e vedere cosa ci fosse all’interno!
Forse solo polvere, forse solo robaccia dimenticata, carabattole dello scrittore, pile di scartoffie, foto di tremendi scenari di guerra, oppure pagine seducenti di quei libercoli erotici che erano andati a ruba?
Si aggirava intorno al giardino, vicino alla cancellata, a curiosare, ma non riusciva ad avvicinarsi, un po’ intimorita, anche se sapeva che all’interno non c’era anima viva.
Credeva che qualcuno potesse materializzarsi e chiederle: ‘Lei cosa ci fa qui?’
Si scopriva a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se, davvero, qualcuno le avesse fatto quella domanda.
La risposta sarebbe stata l’unica possibile: ‘Questa è la mia casa, Monsieur. Posso offrirle un té?’
Non successe subito o all’improvviso, ci volle del tempo, ci volle la pandemia.
Milène avrebbe chiamato quell’anno: l’anno del Gatto. Non era l’anno del gatto, inteso come da tradizione cinese, l'anno dedicato al culto del gatto. Era il 2020, che, in realtà, da tradizione cinese era l’anno del Topo, ma, per lei, quell'anno, il 2020, sarebbe stato per sempre l'anno del Gatto. Perché al suo paese dire ‘essere del gatto’ significava essere in una situazione molto complicata e senza via d’uscita ed essere davvero depressi, insomma, come diceva lei, 'stare, davvero, messi male’.
A seguito delle misure di contenimento della pandemia e con il discorso di Macron a reti unificate, sui principali canali francesi, del 12 marzo 2020, era stato chiaro, che le frontiere sarebbero state chiuse il giorno dopo.
Quell’accidente di discorso aveva spaventato tutti.
Ma a lei, alcuni amici italiani avevano prospettato di restare, di non ritornare in Italia, di continuare a vivere come se fossero ancora in villeggiatura, una villeggiatura forzata, certo, con molti rischi e poche certezze.
Sarebbero rimasti e si sarebbero aiutati, così dicevano. Sembrava davvero incredibile potersi aiutare in una situazione in cui non avresti potuto neppure avvicinarti e condividere qualcosa. Ma fu possibile e funzionò.
La cosa surreale, che stava accadendo, era che i francesi mal sopportavano quelle regole così rigide. Nel paesino la vita sembrava scorrere come se niente fosse, con nessuna differenza, c’erano addirittura turisti inglesi che proseguivano la settimana bianca, che si divertivano alle terrazze dei caffè, come se non fosse successo nulla di nulla e nessuno sapesse di quel morbo così potente e sconosciuto che stava mietendo vittime a pochi chilometri da loro.
Quel discorso del Presidente, cambiò tutto.
C’é sempre un senso di solidarietà fra gli italiani all’estero che è poco espresso in patria e in quel piccolo villaggio quella sfortunata e inconcepibile disgrazia, li rendeva ancora più coesi.
I timori erano tanti, però Milène decise di restare. Non era una ragazzina, era in pensione da alcuni anni, il suo lavoro l’aveva davvero stancata, consumata, ma non l’aveva resa arida, come molte altre sue colleghe e nonostante non avesse una famiglia, non si sentiva sola. C’erano amici e amiche.
La domanda che si poneva era : ‘e se poi mi ammalassi?’
Ma come sarebbe stato possibile, in quel paesino sperduto, di 300 anime, immerso nel verde di una montagna altissima!
Il gatto non si sarebbe spinto fin lassù! Forse solo il gatto delle nevi.
Infatti non si ammalò.
Era maggio, il peggio sembrava passato.
‘Buongiorno, Mylène’
‘Bonjour, Monsieur Le Maire’
‘Avrei una richiesta.’
Lo aveva incontrato per caso, nell’unica strada che percorreva, vicino al suo appartamentino. Non poteva allontanarsi, almeno quella era la limitazione del lockdown, pena l’arrivo dei due gendarmi che controllavano, di ronda, le stradine del villaggio.
Sembrava capitato lì, vicino a casa sua, proprio apposta.
Lo conosceva, era un uomo basso, tarchiato,con dei moustaches chevron, che lo rendevano somigliante a un personaggio dei videogiochi della Nintendo, Super Mario. Gli italiani gli avevano bonariamente affibbiato quel nomignolo, lui lo sapeva e se la rideva.
La mascherina, messa male, un po’ storta, come ormai tutti in paese indossavano, non era certo una FFP2 e attutiva il suono delle parole.
Il francese diveniva così un po’ difficile da capire e Monsieur Grieur aveva una voce bassa, baritonale che non aiutava.
‘So che facevi la maestra al tuo paese in Italia e vorrei chiederti un favore. Tu conosci bene la lingua francese. Abbiamo pensato che saresti la persona giusta’.
Milène non capiva, conosceva Rose, la maestra del villaggio, era giovane e jolie con i capelli legati in una bella coda di cavallo che ondeggiava mentre camminava, accoglieva i bambini dell’Ecole primaire con un sorriso scherzoso e gentile, tutti nella stessa aula, dai sei anni agli undici.
‘Si riapre la scuola, diventerà ufficiale, ho ricevuto una mail dalla direzione dipartimentale’
‘E’ una bella notizia!’
‘Peccato che Rose sia ricoverata in terapia intensiva e non sappiamo chi possa sostituirla...’
‘Rose? Mi spiace. Non credo sia fattibile, io sono italiana e…’
‘È una situazione di emergenza, me ne frego della burocrazia. I bambini sono stati chiusi per mesi, ti conoscono, anche le famiglie ti conoscono… Qui non si trasferisce nessuno a sostituirla. Sei l’unica che possa aiutarci’.
‘Vorrei pensarci per…’
‘Non c’è tempo per pensarci, la scuola deve riaprire…’
Le giornate si erano allungate, l’inverno stava cadendo fra le braccia di un caldo gentile che gli scioglieva la sua ultima neve.
Milène, come tutti i giorni, percorreva il breve tratto che la separava dalla scuola; i bambini quel giorno li avrebbe portati fuori, nei boschi a raccogliere impressioni, dovevano restare nelle vicinanze, entro i dieci chilometri, anche se i due gendarmi ormai non ci facevano più caso.
Milène restò a fare la maestra di supporto in quel paesino per tutta la durata della pandemia di coronavirus. I giorni passavano veloci, il primo confinamento, il secondo e infine il terzo.
A fasi alterne la scuola chiudeva e riapriva. Milène aveva insegnato ai piccoli anche l’italiano, li aspettava con qualsiasi tempo atmosferico ci fosse fuori, sulla soglia della piccola scuola. I bambini la salutavano festosi con le loro mascherine colorate: 'Buongiorno, buongiorno...'
Il bosco delle fate stava riempiendosi di cristalli appesi che alla luce del sole si sarebbero sciolti e sarebbero caduti nelle mani dei bambini.
Le fate li aspettavano dietro ogni curva del sentiero e i larici stavano rimettendosi le loro giacchine di aghi verdi, chiarissimi per incontrare la primavera e c’era un profumo di terra che aveva voglia di rinascere.
* * *
Le teiere erano tutte in riga come ballerine di fila. Le tazze non vedevano l’ora di ballare.
I tavolini in giardino erano stati ricoperti di belle tovaglie a quadrettini. La cioccolata era pronta, calda al punto giusto per poter essere spalmata, le padelle per le crepes erano già disposte sui fornelli per il can-can.
Milène non riusciva a trattenere l’emozione e correva da una parte della sala d’ingresso alla sala di ricevimento e poi verso il giardino a controllare se tutto fosse sistemato come lo aveva sempre sognato. Lo era, preciso e forse anche di più.
Marcella fu la prima a entrare, aveva un piccolo mazzo di roselline comprato in Italia.
‘Così avevi ragione tu eh! Se lo vuoi, prima o poi diventa tuo', così, ci sei riuscita ad averla!’ E rise.
‘Presto, presto! Che fai lì impalata? Dammi una mano! È l’apertura, è l’inaugurazione, arriveranno tutti!'
*** *** ***
Il Consiglio Comunale si è riunito il giorno 23 maggio 2023 e ha decretato che la proposta della 'Casa delle Fate’ della Signora Milène Rosati è stata deliberata e accettata. La Signora Rosati occuperà e gestirà la ‘Casa delle Fate’ a beneficio dei bambini del villaggio.
Essendo questo progetto d’interesse collettivo, questa delibera ha valore pluriennale.
Fait le 23 mai 2023,
Le Maire,
Henri Grieur.
Mary Read