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Non puoi fermare le lacrime che non scendono.
Ma puoi fermare la pioggia?
Buffalo 4 Luglio 2004
Quella volta diluviava.
Fuori. E dentro.
I Goo Goo Dolls tornavano a casa, a Buffalo, New York. La loro città.
Il concerto era andato liscio, tra attesa e commozione. Il pubblico aspettava solo il gran finale: Iris.
L’ultima canzone.
Il momento in cui tutto si sarebbe dovuto chiudere con un’esplosione di emozione.
Ma proprio allora il cielo si è rotto.
Non una pioggia qualsiasi: un vero nubifragio.
Lampi, vento, acqua che ti colpiva in faccia come uno schiaffo.
In qualsiasi altro concerto, con qualsiasi altra band, sarebbe stato il segnale per chiudere.
E infatti i Goo Goo Dolls sono usciti dal palco. Sembrava finita.
Ma poi è scattata una scintilla.
Come potevano, davanti alla loro gente, a casa loro, rinunciare a Iris?
Una canzone che va oltre la musica: un grido d’identità.
Una preghiera urlata a chi ti vuole vedere davvero, senza filtri.
Non potevano lasciarla lì.
Sono tornati fuori.
Fradici. I capelli incollati al viso. Le chitarre ormai segnate.
L’acqua che gocciolava dai microfoni.
E hanno ricominciato a suonare.
Il pubblico?
Nessuno si è mosso. Nessuno ha aperto un ombrello.
Nessuno è scappato.
Come se tutti avessero capito che quella pioggia faceva parte del rito, parte della verità che stavano per vivere.
E quando Rzeznik ha gridato, con la pioggia che gli colava addosso: “All you guys, take this one, alright?”
la folla è esplosa.
Un coro ruvido, potente, disperato:
“I just want you to know who I am.”
Quel verso ha smesso di essere solo una frase.
È diventato un urlo collettivo.
Una dichiarazione d’esistenza. Una liberazione.
E la cosa più incredibile?
Nessuno quel giorno aveva un telefono alzato.
Nessuna registrazione. Nessuna foto. Nessun filtro.
Solo presenza. Solo pelle bagnata.
Solo voci e cuori che si riconoscevano.
Oggi, a qualsiasi concerto, si vede una distesa di luci di telefoni.
Gente che non vive il momento, ma lo guarda da uno schermo.
Quel giorno no.
Quel giorno c’era solo vita vera.
Il film non era sul palco.
Il film accadeva dentro chi era lì, completamente.
Io non c’ero fisicamente.
Non ero sotto quel diluvio.
Ma ogni volta che riguardo quel video, frutto di sole 5 telecamere fisse sopravvissute al vento tra tutte quelle presenti, sento la pioggia sulla pelle.
Il respiro. Il coro.
La verità che viene fuori quando non puoi più nasconderti.
Le lacrime non sempre scendono.
Ma la pioggia, sì.
E quella sera, la pioggia ha fatto uscire tutto ciò che dentro non trovava la forza.
Iris è un inno all’essere visti.
A quella fame profonda di essere riconosciuti, autentici, interi.
Di far sapere al mondo chi siamo davvero.
E quella tempesta è stata come un sigillo.
Come se il cielo stesso volesse sottolineare che lì, in quel momento, non c’erano più maschere.
Solo verità.
In quel diluvio, sotto quelle note,
siamo stati visti.
Davvero.
E forse è questa la magia più grande di quella sera:
non è stato solo un concerto.
È stato un momento in cui la pioggia ha permesso a chi c’era —
e anche a chi non c’era —
di sentirsi, finalmente, visto.