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“Non ti spaventare” mi ha detto mio padre.
Camminando verso Vico del Colle fumavo una sigaretta. Il mio viso era sereno, ma il mio corpo era teso e percepivo i primi sintomi di uno svenimento.
Mi sentivo pronta. Avevo aspettato anni, ma non era stata una vera e propria attesa, solamente una vita che continua.
Ricordo il giorno in cui mia madre e mio padre mi portarono da Elena, l’ultimo giorno in cui la vidi.
Ho in mente poche cose: un lettino d’ospedale, una mano magra ma dalla stretta dolce; il viso non lo ricordo, e nemmeno l’espressione, ma posso dire di non aver provato dolore o tristezza.
Ripensandoci, era come essere di fronte ad un paesaggio bellissimo con cui però mi era impossibile comunicare.
Fu la stessa sensazione che provai il giorno del suo funerale. Non versai una lacrima. Avevo dieci anni allora, e la rabbia che provai quella mattina davanti all’altare, tra i banchi della chiesa, fu la rabbia della mia adolescenza, una nausea che allora durò solo qualche ora, ma che da sempre poi ha fatto da sottofondo alla mia vita di tutti i giorni.
La morte di Elena fu per me la morte di Dio.
Mia zia ha girato la chiave nella serratura del vecchio portone in legno chiaro. C’erano ancora i battenti in ferro a me familiari, il campanello che tante volte il mio dito aveva sfiorato e che significava una soffice sicurezza in un letto fresco. Le scale erano quelle, in pietra semplice. Accovacciata nel mezzo dell’alta scalinata ho visto il mio fantasma, un’altra me con i suoi giochi e le sue illusioni da bambina felice.
Poi, raggiunta la porta d’ingresso all’ultimo piano, siamo entrati.
Il terremoto aveva rovinato il solaio e il soffitto, ma tutto era come me lo ricordavo.
Incantata da ciò che vedevo, non percepivo affatto l’assenza in quella casa non vissuta, abbandonata. La polvere ricopriva gli oggetti, le bambole, le coperte; vecchi quadri di mio padre erano ancora appesi alle pareti: paesaggi, semplici nature morte. Ho intravisto una gabbia per uccelli, ho ricordato un canarino. Istintivamente mi sono avvicinata alla finestra che dalla cucina porta ad un piccolo terrazzino.
Una notte d’estate.
Una bambina di nove anni si contorce nel suo letto. E’ completamente stravolta dall’ansia, la notte l’accosta ai pensieri peggiori. Il letto accanto, dove ancora è teso il suo piccolo braccio in cerca di una mano, è vuoto. Si alza, la bambina, e lì in fondo a quella cucina, la vede.
Seduta su una piccola sedia Elena osserva le montagne e la prima luce del mattino che si affaccia ad illuminare il sonno. C’è un vento leggero e piacevole che smuove delicatamente le tende.
“Ehi, vieni qui” dice Elena con lo sguardo perso all’orizzonte. La piccola bambina, col viso gonfio di terrore e lacrime, si avvicina.
“Prendi una sedia” dice, e così la bimba esegue.
Sedute una di fronte all’altra, le due donne non si guardano, osservano i tetti dalle tegole storte delle case sottostanti.
“Non riesco a dormire” dice la bambina.
“Come mai?” chiede la donna.
“Penso alla morte, ho paura. Non voglio morire mai”.
La piccola non distoglie lo sguardo da quei tetti. L’aria è sempre più piacevole, la luce avanza.
“Piccola mia, non devi avere paura. Ci sono io, vedi? Quando ti vengono in mente queste brutte cose, tu pensa agli angeli, pensa a qualcosa che ti rende felice. Non devi avere paura”.
Non devi avere paura. Erano le parole che risuonavano come un eco nella mia mente mentre, con attenzione, spiavo tra le buste di plastica impolverate.
Quei tetti erano il suo sguardo che si poggiava sulla bambina amorevolmente. Un amore speciale quello di Elena, così triste, velato di malinconia, ma così forte; l’amore di chi ha visto l’inferno e ne porta i segni. Ora il vetro di quella finestra era opaco, sporcato dal tempo.
Mio padre e mia zia parlavano tra loro, riportando alla luce immagini in cui io non potevo riconoscermi.
Poi ho visto quello specchio, nell’angolo vicino al lavabo, uno di quegli specchi che stanno in una mano. Riflesso non c’era il mio viso, ma quello di Elena che si accingeva a prendere la sua crema per le mani. Era una semplice scatoletta di latta blu, la ricordo come se fosse ieri, ed era per le sue mani bianche quella crema profumata, le mani che stringevano quelle della piccola bambina e che l’accompagnavano verso un sonno tranquillo.
Poi ho pensato: “io non provo dolore”. Non riuscivo ad essere triste nè a commuovermi perchè era sempre rimasta lì, in quella casa dove avevo passato tante ore in religioso silenzio, quella casa dove avevo seminato il mio futuro. Ed Elena era sempre rimasta in me, così vicina alla mia vita da non sentirne la mancanza.
Non avevo perduto nulla. E' con la sua morte che è entrata in me; è con lo spegnersi della sua forza vitale che io ho iniziato a vivere, a diventare donna. Questo lei lo ha sempre saputo, sin da quella mattina in cui, con un’empatia immensa, aveva visto in quel viso triste una piccola Elena spaventata e sola.
Sono certa che in quel suo sguardo c’era la piena consapevolezza che la sua morte sarebbe stata la mia vita, che spegnendosi si sarebbe unita a me in un’unica entità, e che non mi avrebbe mai abbandonata, nessuno avrebbe più potuto separarci.
Il nostro era un patto segreto, a dispetto di tutti. La sua assenza fu una fase di iniziazione, un sacrificio necessario.
Abbiamo deciso di andarcene.
Ho preso un vecchio libro di mia zia preso in prestito da una biblioteca e mai più restituito, e due disegni di mio padre del ’75.
Mentre varcavo l’uscita, il mio sguardo si è posato sul telefono, si trovava dove sempre era stato, non c’era la minima traccia di spostamento.
“L’ho lasciato” ha detto mia zia “non mi sono ancora decisa a staccare la linea telefonica”.
Poi ci siamo chiusi la porta alle spalle.