Il guastafeste

scritto da Rubrus
Scritto 10 mesi fa • Pubblicato 10 mesi fa • Revisionato 10 mesi fa
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Autore del testo Rubrus

Testo: Il guastafeste
di Rubrus

La prima volta che mi chiamarono “dottore” avevo vent’anni.
Era stato facile conseguire il titolo.
Non come parcheggiare (“vadi pure dottò” mi aveva apostrofato il custode promettendo di custodirmi l’auto, una Delta comprata coi primi risparmi) ma comunque facile.
Del resto, era il 1989 e tutto sembrava facile: la guerra fredda era finita, il muro di Berlino prossimo a cadere (anche se allora non lo sapevamo perché era maggio e le rose profumavano come sempre), il rischio dell’olocausto nucleare, se non proprio svanito, in fuga verso un orizzonte lontano, il crollo delle Torri Gemelle, la crisi climatica, il cyberbullismo, il politicamente corretto e i monopattinisti ancora di là da venire. Insomma, avevo vent’anni, studiavo medicina, facevo il cameriere e avevo ragione di credere che il futuro avrebbe portato delle nuvole, ma non poche sarebbero state rosa.
Ingenuo? Forse, ma era giusto così e dovrebbe esserlo per chiunque.
«Gianni si è sentito male» mi disse il direttore di sala nominandomi medico da campo. Già, perché un matrimonio è un campo di battaglia. Non ci sono ferite sanguinanti e arti lacerati, ma tattica e strategia nella disposizione dei tavoli, nella scelta della musica, negli abiti di testimoni e damigelle e tutto il circo equestre di contorno non sfigurerebbero in un teatro di guerra. E poi, spesso, le ferite ci sono davvero. Il più delle volte vengono fuori alla lunga distanza, come lo stress da granata o l’avvelenamento da radiazioni.
Gianni era il cameriere anziano e aveva settant’anni che, all’epoca, era un’età da non prendere sottogamba: finché avevi sessant’anni potevi definirti “anziano”, ma quando la cifra delle decine diventava un sette eri vecchio, anche se non te lo dicevano in faccia. In compenso, nessuno ti avrebbe tolto la pensione (sempre a proposito di nuvole rosa nel futuro).
Gianni, invece, lavorava ancora. Aveva le sue ragioni: un ristorante fallito, una vedovanza, due figli che vivevano per la maggior parte del tempo ai margini della legalità, tranne quando facevano un salto dall’altra parte finendo dietro le sbarre per qualche mese.
A settant’anni suonati, Gianni era in grado di attraversare saloni e giardini alla velocità di un maratoneta reggendo cinque piatti e con l’aria di chi passeggia la domenica pomeriggio nelle vie dello shopping.
La sua dote principale però era rendere leggero per gli altri il lavoro (che non è facile come sembra, come forse alcuni di voi sapranno, almeno finché non verremo rimpiazzati da robot che non chiedono la mancia e non hanno calli ai piedi) con aneddoti o battute. Ne sfornava di nuove a ogni cerimonia e penso che alcuni di noi siano rimasti in cooperativa, anche se lo stipendio non era granchè, solo per poterle ascoltare. Io non ero tra loro (la ragione principale erano le rate della Delta), ma i racconti di Gianni avevano avuto il loro peso.
A parte le volte che lui o lei non si erano presentati all’altare (era successo in un paio di occasioni ed era una storia abbastanza scontata) c’era la rissa tra le damigelle al momento del lancio del bouquet, le future suocere che si erano tirate addosso intere bacinelle di ponce, il neosposo che aveva consumato il matrimonio in un bagno circa mezz’ora dopo il “sì”, ma con la testimone nonchè migliore amica della neosposa eccetera eccetera.
Quella volta però, quel maggio del 1989, la prima volta che mi chiamarono dottore, Gianni era accasciato, boccheggiante, su una sedia vicino alle cucine e il più lontano possibile dagli invitati.
Aveva la cravatta a farfalla slacciata e la giaccia color panna aperta sulla camicia bianca; col viso pallido, l’espressione sfatta e i capelli candidi sembrava una torta alla crema andata a male.
Era vigile e cosciente e aveva il respiro affannato, ma regolare. Gli tastai il polso e constatai che il battito era accelerato. Non potevo escludere un infarto – in realtà non potevo escludere quasi niente – ma, dovendo scegliere, avrei puntato su uno sbalzo di pressione.
«Ti sei sentito svenire?» azzardai.
Lui deglutì e annuì come se la risposta fosse ovvia, poi mi chiese (la voce era debole, ma chiara e le parole ben articolate): «Il tavolo in giardino, il primo accanto alla piscina, è uno dei tuoi?».
Il buffet per le prime zanzare della stagione, sicuro che lo era. Riservato agli ospiti spaiati e meno importanti. Tre giovani donne sui trenta e due uomini della stessa età che, avrei scommesso, fino a quel momento non si erano mai incontrati.
Gianni interpretò il mio silenzio come una risposta affermativa e disse: «Vai a prendere il mio borsone e portamelo, per favore». Pensai che potesse contenere delle medicine e comunque non era il caso di contraddirlo. Il direttore di sala non mi aveva autorizzato ad allontanarmi (due camerieri non possono svignarsela senza che, in breve, il servizio ne risenta), ma potevo sempre dire “ordine del dottore”. Dopotutto, ero stato promosso sul campo.
Ci impiegai meno di due minuti ma, quando tornai, Gianni si era alzato e stava davanti alla finestra del corridoio che univa le cucine al salone. Da lì, poteva vedere la piscina e i tavoli vicini, compreso quello con le tre donne e i due uomini. Sembrava essersi rimesso e mi complimentai con me stesso: la mia prima diagnosi ed era giusta (be’, molto probabilmente).
«Prendimi l’album delle foto» mi ordinò. Ubbidii, spinto più dalla curiosità che dall’intenzione di non contraddirlo, rovistai un po' e tirai fuori un album un po’ logoro. Probabilmente fra qualche decennio scompariranno, sostituiti da selfie e filmati, magari taroccati con qualche programma del cavolo, ma spero di no. Non è solo questione di attaccamento al passato: c’è un po’ di materialità e di umanità, là dentro, bella o brutta che sia.
Quello, comunque, non conteneva solo foto. La maggior parte erano articoli di giornale e sembrava che, a ogni ritratto, ne corrispondessero parecchi.
Gianni me lo tolse di mano e iniziò a sfogliarlo, sollevando di tanto in tanto lo sguardo verso il tavolo accanto alla piscina (il buffet per le zanzare, come lo avevo chiamato).
Io sbirciavo, ma non riuscivo a leggere i ritagli perché Gianni non si soffermava su di essi. Le primo foto sembravano risalire a venti anni prima o forse più e, man mano che ci si avvicinava alle ultime pagine, si andava avanti nel tempo. Riflettei su come fossero ridicole acconciature e abiti di solo pochi anni prima e non potei evitare di pensare che anche le mise di quel matrimonio, che ci sembravano il massimo dell’eleganza e della modernità, di lì ad altri vent’anni sarebbero sembrate altrettanto ridicole (e improvvisamente mi rendo conto che di anni ne sono passati quasi quaranta e mi chiedo quando il tempo abbia cominciato a correre a una velocità che la vecchia Delta, rivenduta non ricordo più quando, non ha mai raggiunto).
«Il tizio con la giacca blu» disse Gianni chiudendo l’album «è un imboscato».
Giacca blu con spalle un po’ imbottite, pantaloni grigi, cravatta sottile dal nodo stretto, folti capelli neri un po’ corti ai lati e lunghi sulla nuca: era lui il gallo di quel minuscolo pollaio, lo si capiva dalla frequenza con cui le tre commensali gli si rivolgevano; l’altro uomo, dal vestito più elegante e indubbiamente più costoso, era stato messo da parte. Avevo accumulato abbastanza esperienza da capirlo con paio di occhiate: i matrimoni, in un certo senso, sono rituali d’accoppiamento e non esclusivamente per gli sposi e qualche volta (a Gianni era capitato tre volte, ma su una avevo dei dubbi) arrivano a concludersi con una sveltina in un luogo appartato.
«Un imboscato?» ripetei dubbioso. I neosposi non erano delle celebrità, ma erano benestanti e, tra gli invitati, c’era senz’altro gente che con loro aveva solo un remoto legame, ma uno scroccone… In un buffet in piedi ci si poteva anche intrufolare, ma un ricevimento era diverso: anche se potevano esserci e spesso c’erano variazioni dell’ultimo minuto, c’era pur sempre una lista degli invitati.
«Un imboscato seriale» insistette Gianni aprendo allo stesso tempo l’album sulla prima foto «guarda qui».
Aguzzai la vista e, tra capelli cotonati e acconciature alla Beatles intravidi, in una foto in bianco e nero, un tale che somigliava al tizio seduto al buffet per le zanzare. Ma naturalmente non poteva essere lui: lo provava la didascalia a penna nell’angolo in basso a sinistra: “Minori, 8 giugno 1968”.
«La mia prima giornata di lavoro dopo la bancarotta» dichiarò Gianni «Non andò troppo male. A loro due, invece...» girò la pagina dell’album, dove era incollato un ritaglio di giornale a proposito di un “Tragico incidente d’auto per due novelli sposi” (allora doveva suonare non troppo scontato, come titolo, o il giornalista non era granché) «Avrebbero dovuto partire in luna di miele il giorno dopo» spiegò Gianni.
«Oh, andiamo...» ribattei.
Lui mi zittì e girò la pagina. La foto risaliva all’anno successivo. Lo sposo era stato aggredito da tre picchiatori. Non dovevano essere esperti del mestiere perché avevano esagerato e lui ci aveva rimesso le penne. Sui giornali di qualche mese dopo era scritto che aveva il vizio del gioco, aveva perso una grossa somma scommettendo contro lo sbarco sulla Luna e non aveva pagato.
In una foto scattata da lontano, e piuttosto sfocata, scattata davanti alla chiesa, c’era un tale che somigliava a quello del matrimonio precedente.
Gianni mi mostrò la foto successiva, risalente all’ottobre dello stesso anno. «Qui si vede meglio» disse. Lo scroccone, o presunto tale, era seduto a una tavolata e, anche se in posizione defilata, perfettamente riconoscibile. «Lei morì di parto» disse Gianni «era piuttosto raro anche all'epoca. È stato allora che ho cominciato a interessarmi alla faccenda. Io ero addetto al servizio in quella sala e l’avevo riconosciuto subito. Lui, invece, non mi riconobbe. Sai com’è: siamo invisibili e spesso mi capita di pensare che sia una fortuna».
Andò avanti veloce, girando le pagine mentre i capelli degli uomini si allungavano, le gonne si accorciavano e i pantaloni si scampanavano, poi proseguì, scorrendo gli anni in cui il processo si invertiva e proliferavano le acconciature alla Lady Diana d’Inghilterra.
Gente che, poco dopo sposata, si ammalava, andava in rovina, uccideva il o la consorte, rimaneva vittima di incidenti d’auto o d’aereo, veniva rapita, uccisa durante una rapina in banca...
E, in ogni foto, mentre si passava dal bianco e nero agli strani colori seppiati delle macchine non professionali e poi a quelli più realistici degli ultimi modelli, ritratto mentre mangiava, o tirava il riso, o ballava…
«So che cosa pensi: ovviamente non ho partecipato a tutti i matrimoni» spiegò Gianni «come sai conosco tutti i fotografi della zona e così mi sono fatto dare i negativi. Le ricerche in edicola o emeroteca le faccio prima e sono piuttosto facili: le disgrazie capitate a gente che si è sposata da meno di un anno fanno quasi sempre notizia; quanto a quelle che colpiscono chi si è sposato da più tempo… non penso che il suo potere sia così grande. Almeno, spero».
Gianni si sbagliava. Non pensavo a quello. In effetti, non volevo pensare e, per evitarlo, mi ripetevo: “non può essere, non può essere, non può essere”. Il 1968 era un’età remota. Ancora prima che io nascessi. E l’imboscato, lo scroccone, l’uomo seduto al tavolo accanto alla piscina cambiava abito, pettinatura, ma era sempre uguale. Dunque non poteva essere.
«Lo sai che cosa ti rispondono le persone quando chiedi loro quale sia stato il più bel giorno della loro vita» proseguì Gianni «Dopo la nascita dei figli, il più delle volte dicono “il giorno del mio matrimonio”, non importa che cosa è successo dopo».
«Andiamo… è impossibile» riuscii a dire. L’idea che avevo cercato di scacciare aveva, alla fine, preso possesso del mio cervello: Gianni era pazzo… o almeno affetto da una psicosi.
«In ogni caso, il matrimonio è un giorno che ti cambia la vita. Siamo quasi negli anni ‘90, c’è il divorzio, la gente si sposa di meno e ancor meno in chiesa, però...» tornò a guardare il buffet per le zanzare. Era sempre pallido, ma non sembrava più sofferente. Sembrava spaventato a morte.
«E se, in quel giorno, uno dei giorni che ti cambiano la vita, ci fossero, in qualche modo, le premesse di quello che accadrà? Si, lo so, si chiama “superstizione” e ne abbiamo tutti parecchia, ma ascolta...».
Si voltò verso di me e ora non sembrava più spaventato. Sembrava determinato. «Una volta sono andato al matrimonio di una scrittrice. Al discorso per gli invitati ha detto che il matrimonio è un POD. Punto di divergenza in inglese. Da quel momento in poi la vita prende una certa direzione e non un’altra. Hanno un nome per le figure romanzesche che spingono la storia in un senso invece dell’altro. Li chiamano “agenti del cambiamento”. E se l’imboscato, il “Guastafeste”, come lo chiamo io, fosse un agente del cambiamento? Se indirizzasse gli eventi verso… » lo sguardo gli cadde sull'album e lui lo distolse «Insomma, se fosse una specie di...».
Il direttore di sala strllò il mio nome. Non urlava mai e questo significava una sola cosa: l’assenza di ben due camerieri si era fatta sentire. Si era fatta sentire molto.
Mollai Gianni dov’era e mi precipitai in cucina: avevo pur sempre le rate della Delta da pagare. Incrociai il direttore di sala che mi lanciò un’occhiataccia: la scenata me l’avrebbe fatta, ma dopo. Ora non c’era tempo da perdere.
Nei minuti successivi corsi e mi affannai più di quanto avessi mai fatto. Se ci ripenso, mi sembra impossibile che, all’epoca, potessi sostenere fatiche simili. Soprattutto, però, sono certo che non era il caso di sopportarle per servire ai tavoli di gente per cui, come aveva detto il vecchio, ero invisibile.
Malgrado ciò, un pensiero mi ronzava per la testa: non sapevo se Gianni sarebbe tornato ai tavoli: quell’uomo aveva covato per anni e in segreto una grave psicosi, ora in fase acuta, e non era il caso di consentirglielo senza prima compiere ulteriori accertamenti. In giro, però, non lo vedevo, così mi ripromisi di informare il direttore di sala non appena avessi avuto un minuto libero che arrivò, però, solo dopo la torta nuziale.
Gianni sembrava sparito e io pensai che il peggio fosse passato e che potevo approfittarne per svuotarmi la vescica. Come ho detto all’inizio, avevo vent’anni e pensavo che il futuro sarebbe stato nuvoloso, ma parecchie nuvole sarebbero state rosa.
Tornando in giardino, vidi Gianni attraversare il prato col suo passo da maratoneta, diretto al tavolo accanto alla piscina dove ora erano sedute solo le ragazze e il presunto imboscato. Il Guastafeste, come lo chiamava lui.
Pensai di chiamare Gianni, poi di chiamare il direttore di sala.
Le due idee impiegarono un paio di secondi per attraversarmi il cervello, ma furono troppi.
Prima che potessi urlare qualunque cosa, Gianni estrasse da sotto la giacca un coltellaccio da cucina e, con un colpo secco, recise la carotide del Guastafeste. Un colpo preciso, secco, deciso. Doveva aver fatto pratica in cucina negli anni in cui era stato proprietario del ristorante. Ancora adesso, come se avessi avuto una specie di zoom nell’occhio, rivedo il fiotto di sangue schizzare attraverso il tavolo e spiaccicarsi sull’abito celeste della ragazza di fronte. Subito, come il tuono dopo il lampo, le urla.

Saltò fuori che l’imboscato era davvero uno scroccone. Aveva un nome comunissimo che ho scordato… ho voluto scordare.
«A quanto pare, intrufolarsi ai ricevimenti era, per quel tizio, una specie di lavoro» mi disse il commissario dopo aver raccolto la mia testimonianza. «Aveva attaccato bottone con...» disse il nome della ragazza con l’abito celeste «e, chissà come, era riuscito a farsi invitare al matrimonio». Il “come” mi era abbastanza chiaro, avendo notato come le altre due ragazze guardavano il guastafeste.
Che, naturalmente, non era lo stesso tizio della foto del 1968 né di nessuna delle altre foto raccolte da Gianni.
«Faremo accertamenti» concluse il commissario congedandomi.
Non so come sia andata a finire. Non seguii la notizia sui mezzi di informazione: non volevo seguire le orme di Gianni.
Un pensiero, però, non riuscivo a togliermi dalla testa. Il Guastafeste, come Gianni lo chiamava, era comunque riuscito a rovinare il matrimonio.

Sono passati quasi quarant’anni e, da un pezzo, mi chiamano “dottore” senza che ci sia bisogno che mi metta a servire ai tavoli.
Eppure, in un certo senso, è come se non fossimo mai usciti dagli anni’80, visto che mi pare di essere circondato dai revival.
Per altri versi, invece, è tutto completamente diverso: come avrete indovinato, non sono più capace di vedere nuvole rosa all’orizzonte.
O almeno così era fino a un anno fa.
Anche se sembra un lieto fine scontato, di quelli che piacciono alle massaie e che fanno vendere le serie sulle piattaforme, sto per sposarmi.
Anche se ci si sposa pochissimo, i matrimoni in chiesa sono ancor più rari e ancor meno quelli che durano tutta la vita, ci saranno cerimonia in chiesa, ricevimento, luna di miele e tutto il resto.
Dopotutto, benché si sia in inverno demografico, siamo di nuovo in maggio e le rose profumano come sempre.
Mi avvicino ai sessanta e ho capito, semplice realtà che non avevo compreso nel 1989, che i vent’anni capitano una volta nella vita, ma anche i sessanta e i sessantuno e tutti quelli a venire e, se anche ogni istante può essere un punto di divergenza, pochi giorni lo sono come quello del matrimonio.
Credo, voglio credere in tutto questo, così come voglio credere che saprò rendere felice la donna che ha deciso di vivere il resto della propria vita con questo orso disilluso, e che ci siano nuvole rosa in cielo.
Voglio credere in tutto questo, ma temo che, per riuscirci, mi toccherà credere anche nel tizio che chiacchiera con le due ragazze nel parcheggio.
L’ho riconosciuto subito, perché, anche se porta la barba e i capelli rasati e i calzini che lasciano scoperta la caviglia, è lo stesso delle foto del 1968, del 1989 e di chissà quante altre.
Il Guastafeste.

Il guastafeste testo di Rubrus
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