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SOLO PANE AZZIMO
Perché dovrei parlare al vostro cuore, stanotte, del verso tormentato del Maestrale
o del brillio apparente delle stelle, del loro ardire a scintille di fuoco immortale
passato di mano in mano in questo peregrinare incerto, reinventandosi vestale d’eterno?
Perché dovrei ripiegarmi, di nuovo, e riprendere la forma d’un feto nell’utero materno
e succhiarmi ancora il dito, cercando conforto, nello sviscerare ogni singola sfumatura
d’un sentire erosivo che suadente sussurra e risussurra, intonando un cantico di tortura?
Dovrei forse accendere un lume nel buio di questa notte e non annegare nello sconforto,
diventare sabotatrice partigiana e far saltare gli argini, lasciando esondare il mio verso corrotto,
spezzare, con la disperazione di un pitbull incazzato, le catene che lacerano polsi d’emozioni
e respirare a fondo tutta la libertà della brezza dolente, medicando con cura le contusioni.
Ascolto la mente sfornare, adeguandosi al ritmo del frinire di un grillo, parole che temono l’oblio,
e penso che ogni panificatore di versi dovrebbe chiedersi: che poeta potrei mai essere io?
Un pellegrino lento, con occhi di falco, su piste ciclostilabili trafficate da podisti pazzi,
un monaco trappista, con il vizio monastico dell’anti-poesia e l’animo a pezzi.
Un profanatore incivile di giubilei dell’anima che lancia dal finestrino la spazzatura ci(ste)rcense,
e rifiutando d’essere tra le belve assetate di visibilità, offre solo pane azzimo alle vostre mense.