Tre secondi scarsi

scritto da Dyler
Scritto 5 mesi fa • Pubblicato 5 mesi fa • Revisionato 3 mesi fa
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Autore del testo Dyler

Testo: Tre secondi scarsi
di Dyler

Circa tre secondi.

Circa tre secondi era l’intervallo tra una goccia e la successiva. Le gocce cadevano da ore, ma non ci avevo fatto caso, finché un incappucciato aprì la porta e si affacciò.

“Lo senti?”, disse, indicando il rubinetto. “Lo senti il plic-plic? Impazzirai”. Chiuse la porta a chiave, e mentre si allontanava lo sentii dire: “Oh, se impazzirai”.

Come non avevo fatto caso al rubinetto prima, avrei continuato a non dargli importanza ora, giusto? E invece no.

Plic. Tre secondi scarsi. Plic.

Plic, mille-e-uno, mille-e-due, mille-e-tplic.

Cristo, non tre. Quasi tre.

In linea di massima non sarebbe stato un problema insormontabile il fatto che non fossero tre secondi esatti. Cioè, forse sarei impazzito lo stesso. Il problema, però, era l’orologio da parete: vetro satinato come sfondo, numeri romani, due semplici lancette nere.

E faceva tic-tac.

Faceva un cazzo di tic-tac! Tic, un secondo esatto, spaccato, immutabile, inesorabile, tac. Tic, un altro dannato secondo, tac. Forse il volume era basso, anzi, lo era senza dubbio: prima che mi facessero notare il rubinetto, non lo sentivo neanche. Dopo, invece, ogni tic e ogni tac sembravano esplosioni. E con le esplosioni, i plic.

Non riuscivo più a sopportare quel gocciolare infinito, e sopportavo ancora meno la discrepanza con il battito del tempo dell’orologio. A confronto, la fascetta di plastica che mi teneva legato al termosifone era una carezza amorevole. Nonostante fosse molto più stretta del necessario. Nonostante mi fossi ridotto i polsi in sangue tentando di toglierla.

Ma il dolore fisico è niente quando ti incammini verso la pazzia.

Avevo provato a non farci caso, a ignorarlo, ma era un bambino che mi tirava per la giacca chiedendo le caramelle. Parlavo a voce alta per sovrastare il rumore e non sentirlo, cantavo, ma il solo sapere che ci fosse mi stuprava il cervello.

In ogni caso, fu un tentativo che durò poco: mi imbavagliarono.

“Plic, plic, plic”, disse l’incappucciato mentre mi tappava la bocca con del nastro adesivo.

Vedevo solo i suoi occhi color ghiaccio, e parevano occhi che avevano già visto la pazzia, anzi, che la agognavano.

“Plic, plic, plic”, ripeté, mulinando gli indici attorno alle tempie prima di uscire.

La vista mi si annebbiò. Dal naso respiravo a malapena e se non fossi riuscito a calmarmi sarei svenuto. Chiusi gli occhi. Passarono parecchi plic prima che riuscissi a riportare le pulsazioni a un livello accettabile.

Quando mi ripresi, decisi di abbattere uno dei veri nemici. Non quelli incappucciati, ma quelli più pericolosi, quelli che attentavano alla mia sanità mentale. Erano trascorse parecchie ore dal mio risveglio – credo mi avessero narcotizzato – e non mi avevano dato né da bere, né da mangiare. Né spiegazioni. Ero disidratato e spaventato, frustrato e mentalmente stressato. In quella stanza in penombra, puzzolente di muffa, e calda, troppo calda, era bastato sfiorare la biglia per farla rotolare giù per la discesa verso la follia.

Ma avevo due proiettili: con la punta dei piedi sui talloni sfilai le scarpe. Valutai gli obiettivi: il rubinetto era troppo difficile da colpire, puntai all’orologio appeso alla parete di fronte a me.

Primo tentativo. Cercai di mettermi il più in linea possibile con l’orologio, seduto su una sedia in vimini con la sola punta del piede destro nella scarpa. Scalciai in avanti. La mia sneaker Nike decollò roteando su sé stessa. Rumore sordo di suola. Bersaglio mancato. Poco, una decina di centimetri scarsi, ma mancato.

Secondo tentativo. Pessimo, forse non dovrei raccontarlo. A ripensarci, avrei dovuto usare il piede sinistro per lanciare la scarpa sinistra invece del destro. La scarpa partì, ma svirgolando sulla destra e fallendo miseramente, rompendo una vetrinetta distante due metri dal bersaglio.

Ero legato a un termosifone, scalzo, avevo lasciato un’impronta taglia 43 sul muro, infilato una scarpa in mezzo a tazzine e piattini di ceramica, e sparso vetro dappertutto.

E stavo impazzendo.

Il fragore fece accorrere due incappucciati. Uno rimase sulla soglia mentre Occhi di Ghiaccio entrò nella stanza e valutò la situazione.

“Non male”, disse, guardando il segno sul muro. “Ci sei andato vicino”.

Raccolse la scarpa e la soppesò passandosela da una mano all’altra.

“Sembra che non sarà solo il rubinetto a farti impazzire”. Con un dito raddrizzò l’orologio, che in effetti era un pelino storto.

“Hai vinto un altro tentativo. Come al parco giochi”. Mi lanciò la scarpa, ma distante abbastanza perché non arrivassi a prenderla con i piedi. “Ah, che peccato!”, disse. “Ti tocca impazzire”.

Il complice si mise a ridere con una risata che sembrava il raglio di un asino.

“Quello è già andato”, disse l’Asino.

“Mmahahi!”, gli gridai da dietro il nastro adesivo.

“Looocooo”, canticchiò Occhi di Ghiaccio uscendo, accompagnato dai ragli dell’Asino.

Se ne andarono lasciandomi di nuovo solo.

Io, la biglia di cristallo che continuava ad accelerare verso il muro in fondo.

E nel silenzio, ricominciò. Tic, plic, tac, tic.

Plic.

Piansi.

 

Arrivò la notte e tornò il giorno. Su una sedia, con i polsi incrociati dietro la schiena e legati a un termosifone, non so quanto dormii, ma è quantificabile in minuti, più che in ore.

Avevo sonno, fame e sete. Tanta sete. E più pensavo alla sete, più la sete aumentava. Come il gocciolare del rubinetto e il ticchettare dell’orologio, pensare al problema lo ingigantiva. E avere sete quando il fastidio maggiore era il gocciolio di un rubinetto, era di un sadismo che non riuscivo a sopportare.

Verso metà mattinata entrò l’Asino, aveva un bicchiere in mano.

“Se non fiati, ti libero la bocca”, disse. “Dì una vocale e te la chiudo. Fai qualche stronzata e ti chiudo anche il naso. Capito? Annuisci se hai capito”.

Annuii, non c’era molto da capire e non avevo le forze per fare stronzate.

Mi tolse il nastro e finalmente respirai a pieni polmoni.

“Non si ringrazia?”, disse l’Asino.

Bastardo. Mi stava provocando per farmi parlare.

“Vai, stavo scherzando”. Mi diede un colpetto sulla fronte.

“Hai sete?”, chiese, mettendomi il bicchiere pieno d’acqua davanti agli occhi.

Annuii.

“Eh, l’immaginavo”.

Stette a fissarmi per qualche secondo, poi disse: “Sai una cosa? Anch’io”. Si voltò, sollevò la calzamaglia nera che portava sotto il cappuccio, e bevve tutta l’acqua. Una volta coperto di nuovo il volto, si girò verso di me. “Aaah, ci voleva! Bella fresca”.

Avrei urlato. L’avrei ucciso, se avessi potuto. Ma non potevo fare niente. Sentii gli occhi inumidirsi.

“Facciamo così”, disse, andando verso il lavandino. “Plic, plic, plic. Mamma mia che fastidio che mi dà”.

Mise il bicchiere sotto il rubinetto.

“Facciamo così”, ripeté. “Quando si riempirà, te lo darò. Nel frattempo…”, si diresse alla porta e si fermò con la mano sulla maniglia. “Buona giornata!”.

Chiuse la porta a chiave e lo sentii ragliare mentre si allontanava.

 

Quasi tre secondi tra una goccia e l’altra. Una ventina di gocce al minuto. Circa centoventi gocce all’ora. Quante gocce ci sarebbero potute volere per riempire il bicchiere? Non lo sapevo. Troppe. Sarei comunque impazzito prima, sempre che non lo fossi già.

 

Passò un’altra ora. Non li sentivo mai, non sapevo dove fossero, non sapevo dove fossimo, sapevo che non sarei riuscito a stare ancora con le mani legate. I polsi mi facevano molto male, avrei preferito morire piuttosto che continuare quella tortura. Quindi li chiamai.

“Hey”, dissi. Non parlavo da un giorno e la voce suonò strana alle orecchie, senza considerare che la gola mi bruciava come se avessi inghiottito sabbia del Sahara.

“Hey”. Alzai la voce.

Niente.

“HEY!”, gridai.

Passi. Due persone. Aprirono la porta, erano di nuovo loro due. Questa volta fu Occhi di Ghiaccio ad aspettare sulla soglia.

“Ti avevo avvisato”, disse l’Asino venendomi incontro.

“Fai quello che vuoi, non mi interessa. Puoi anche uccidermi. Se però mi fate andare in bagno e mi legate per qualcosa che non siano i polsi, continuerò a starmene buono come ho fatto finora”.

L’Asino si fermò e si voltò a guardare il complice. “Che dici?”.

Occhi di Ghiaccio alzò le spalle, poi sollevò la pistola verso di me. “Se solo penso che stai per fare qualcosa di strano, sparo”.

Annuii.

Tenuto sotto tiro, l’Asino mi tolse la fascetta con una taglierina. Le spalle erano indolenzite, e fu solo con enorme sforzo e dolore che riuscii a portare le braccia davanti. I polsi abrasi sanguinavano in più punti dove la plastica aveva inciso la carne. Ma quello era soltanto dolore fisico, c’era di peggio.

 

In bagno non ci fu privacy, mi concessero solo di rivolgergli la schiena mentre urinavo un liquido scuro. Mi diressi verso il lavandino.

“No, non credo lo farai”, disse l’Asino sollevando la pistola. Non volevano che toccassi l’acqua, non volevano che cercassi di bere. Alzai le mani.

“Lo leghiamo qua in bagno?”, chiese l’Asino.

“No. Qua non sentirebbe bene le gocce”, rispose Occhi di Ghiaccio. Poi, rivolto a me: “Perché tu le vuoi sentire le gocce, vero? E vuoi sentire anche l’orologio”.

“Rimettilo dov’era”, ordinò all’Asino, che mi riportò al termosifone.

“Lo lego per i piedi?”.

“No, legalo per i polsi”.

“Ma…”. L’asino iniziò a obiettare. I miei polsi non erano un bello spettacolo.

“Ti ho detto di legarlo per i polsi, non farmelo ripetere”, disse Occhi di Ghiaccio alzando la voce.

Avevo intuito i ruoli, ma ora era chiaro chi comandasse. Alla sola idea di avere di nuovo i polsi legati sentii lo stomaco contorcersi e la testa girare.

Dopo aver recuperato una nuova fascetta, l’Asino mi fece sedere nella posizione precedente. Mise la fascetta.

“Stringi”, disse Occhi di Ghiaccio.

L’Asino lo guardò, poi strinse e vidi l’Inferno.

Ero a un passo dallo svenire, quando un bagliore insopportabile alla vista mi accecò.

Persi i sensi.

 

 

Che mal di testa. Tento di aprire gli occhi, ma è come se decine di spilli mi penetrino le palpebre. Li tengo chiusi.

Sono sdraiato, ho un cuscino sotto la testa. Mi ispeziono con le mani, ho i polsi fasciati e mi fanno male. Sono attaccato a una flebo, devo essere all’ospedale.

Immagino che mi abbiano liberato, che abbiano fatto irruzione e usato le flashbang, le granate stordenti.

Poi lo sento, dev’essere il monitor paziente: Beep, beep, beep.

Tre secondi spaccati.

Mentre sto per riaddormentarmi, giurerei di aver sentito una risata. Una risata strana.

Quasi un raglio.

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