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Ricordo ancora il caldo di quell'estate, denso e implacabile. Le cicale non smettevano d'intonare inni d'amore, mentre l'asfalto si trasformava in un fiume feroce, inghiottendo ogni macchina che lo attraversava. L'unico rifugio da quella giungla infernale era una piccola spiaggia vicino casa, dove la brezza del mare trasportava un breve sollievo.
A quei tempi venivo considerata una bambina tranquilla che non parlava molto ma la verità era che le mie parole, non trovando nessuno pronto ad ascoltarle, morivano a mezz'aria. "Più tardi", diceva mia madre quando cercavo di raccontarle qualcosa, mentre mio padre mi ascoltava con mezzo orecchio, annuendo distratto mentre faceva altro. Così, piano piano, avevo iniziato a parlare sempre meno; tanto, niente sarebbe cambiato.
Una mattina ero seduta sulla sabbia, con le ginocchia graffiate da qualche caduta di troppo e con le mani intente a creare castelli sbilenchi. Mia madre era poco distante, seduta all'ombra con una matita tra i denti, determinata a completare le parole crociate che aveva lasciato in sospeso giorni prima. Eravamo solo noi due in spiaggia, ma per qualche motivo le onde del mare sembravano partecipare alla nostra piccola scena di vita familiare.
Quel giorno mi ero sporcata interamente di sabbia e non volevo che mia madre si arrabbiasse, così ero entrata in acqua. Mi sentivo accolta dal mare, le sue carezze leggere scivolavano sulla mia pelle mentre restavo incantata a osservare i giochi di luce che si formavano sull'acqua. Poi, all'improvviso, il vento cominciò ad aumentare e le onde mi trascinarono con loro.
Non riuscivo a trovare la superficie, il sale mi bruciava gli occhi mentre l'acqua mi entrava nel naso e in gola. Aprii la bocca per gridare, ma ne uscirono solo bolle che risalivano rapide verso l'alto mentre io restavo intrappolata. Scalciai, cercai di muovere le braccia, ma il mare era più forte di me.
La mia mente si annebbiava, i pensieri scivolavano via, inghiottiti dall'acqua a uno a uno. La pelle, immersa nel freddo, perdeva il suo confine, e il mio corpo si dissolveva nel mare. Non c'era più separazione tra me e l'acqua, che mi trascinava verso uno spazio segreto, lontano dalle leggi della realtà. Fu allora che la paura prese il sopravvento, non tanto per la profondità o il silenzio, ma per il timore di sparire del tutto, di non esistere più.
All'improvviso percepii una presa forte intorno alla mia mano, venni strattonata verso l'alto con violenza e l'aria mi esplose nei polmoni in un colpo solo.
Quando riaprii gli occhi, ero distesa sulla sabbia. Sputai acqua e sentii una voce urlare il mio nome: era mia madre, volevo chiamarla disperata ma quando aprii la bocca, uscirono solo bolle trasparenti.
Da quel momento non ero più riuscita a parlare normalmente: ogni mio verso veniva sostituito da bollicine che salivano piano piano nell'aria, fino a scoppiare in mille frammenti brillanti. I miei genitori mi portarono da numerosi medici, ma nessuno seppe dare una spiegazione a quello strano fenomeno.
La casa, ormai ricca di silenzi, ospitava volti che sembravano sempre più affranti, segnati da un senso d'impotenza e, forse, di rassegnazione per quella nuova realtà. Tutto si stava sgretolando, giorno dopo giorno, e anche io iniziavo a sentirmi diversa, sempre più leggera, quasi trasparente agli occhi degli altri.
Trascorrevo la maggior parte delle giornate chiusa in casa, spaventata da ciò che gli altri avrebbero potuto dire di me. Alla fine, mi rifugiai in un mondo di fantasia, dove la realtà bussava solo di rado e dove mi potevo sbizzarrire a essere chi volevo. Uscivo solo per giocare in un campo vicino casa, dove raccoglievo sempre dei papaveri rossi che usavo per colorarmi le mani.
Un giorno, nel campo, incontrai un gruppo di bambini, sembravano incuriositi e si fermarono a giocare con me. Rimasi sorpresa, ma nel mio cuore si accese una scintilla di speranza. Per l'emozione, aprii la bocca e una bolla si sollevò nell'aria: brillava e danzava come una piccola perla nel vento. I bambini si fermarono, stupiti ma non spaventati. Guardavano la bolla come se fosse un gioco, una magia. Ma quando uno di loro, spinto dalla curiosità, la toccò, la bolla scoppiò vicino al suo viso. Il bambino iniziò a piangere e gli altri, allarmati, cominciarono a mormorare tra loro. Senza pensarci due volte, mi voltai e corsi via con gli occhi pieni di lacrime.
Mi ritrovai vicino a un ruscello dietro la collina dove incontrai una donna. La sua figura era strana, quasi sospesa nel tempo. Non parlò, ma restò lì, in silenzio, mentre io piangevo. Mi ricordavo di averla già vista con i miei genitori quando ci eravamo trasferiti mesi prima. All'epoca mi era sembrata spaventosa perché la sua figura mi ricordava una strega cattiva delle fiabe.
L'anziana donna mi fece entrare in casa sua, un posto silenzioso, ma caldo e accogliente. Mi chiese di sedermi mentre lei preparava il tè, ma io non riuscivo a distogliere lo sguardo dalle sue mani, delicate, ma allo stesso tempo come se lavorassero da tutta la vita. Prese un foglio e iniziò a tracciare curve morbide che sbocciavano in fiori colorati. Mi indicò un blocco di fogli bianchi davanti a me, e con un sorriso gentile mi disse che forse sarebbe stato più facile comunicare attraverso il disegno. "Le parole, a volte, non bastano," mi disse. "Ma puoi sempre parlare con quello che crei." Ancora con gli occhi lucidi cominciai a disegnare. All'inizio era difficile, ma poi, piano piano, iniziai a trovare un modo per esprimere quello che avevo nel cuore; i miei pensieri divennero fiori di carta, pesci senz'acqua e farfalle che volano su un oceano bianco; finalmente mi sentii libera.
Ma quella serenità non durò a lungo. Un giorno, mentre stavo disegnando al tavolo con lei, sentii dei passi pesanti avvicinarsi. La porta si aprì e il marito della donna entrò con il volto scuro, sembrava stanco e arrabbiato. Lei gli sorrise, ma lui non ricambiò. La sua attenzione era rivolta a me, con uno sguardo che mi fece stringere la pancia.
"Cosa stai facendo con questa bambina, Rosa?" Chiese, la voce gelida. "Non ti accorgi che ci sono cose più importanti da fare che perdere tempo con lei?"
Rosa non rispose subito, ma il suo silenzio sembrava giudicante e l'uomo si infuriò. Si avvicinò a lei, alzò una mano e la colpì con forza alla testa, come se dovesse distruggere la sua intera essenza. Lei non si mosse, ma io vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime.
La stanza, che fino a un attimo prima era un rifugio, si riempì di un silenzio pesante. Il suono dello schiaffo sembrava ancora sospeso nell'aria, come un'eco che non voleva svanire. L'uomo si voltò verso di me, e in quel momento seppi che dovevo andarmene. Corsi fuori dalla casa senza voltarmi indietro. Avevo il respiro affannato, il petto che bruciava per la paura e il freddo.
Riuscii ad arrivare a casa, salii i gradini di fretta e battei disperata i pugni sulla porta sperando che qualcuno arrivasse. Mia madre aprì e mi afferrò per le spalle; aveva gli occhi sgranati, come se fossero spaventati. Mi chiese cosa fosse successo. Io tremavo tra le sue braccia ma sentivo come se qualcosa fosse intrappolato in gola, mi stava graffiando da dentro e poi, d'improvviso, esplose.
"Ho paura," dissi.
Parlai, senza bolle, erano parole vere, chiare e vive.
Mia madre sgranò gli occhi. Mio padre, che era apparso dietro di lei, sembrava non credere alle proprie orecchie. Mi strinsero forte a loro e in quel caldo abbraccio percepii l'amore che provavano verso di me e sentii che mi stavano ascoltando davvero.
Con una nuova forza raccontai quello che era accaduto a Rosa, mio padre prese subito il telefono, mia madre mi avvolse in una coperta e mi tenne stretta a sé.
Non capii quanto tempo passò, ma alla fine la polizia intervenne e la portarono via da quella casa, lontano da quell'uomo per sempre.
Per la prima volta, le mie parole, seppur invisibili, erano diventate materia solida, qualcosa che significava davvero nella realtà.