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Celebrazione di Galungan. Il Dharma vittorioso sull’Adharma.
Polarità e dualismi. È fresca l’aria del mattino ubudiano durante l’ormai consueta passeggiata con Ohana, la cagnolina Kintamani, ormai parte centrale di questa vita balinese.
I templi sono già aperti, la processione è già iniziata. Le donne indossano un’extra dose di profumo e portano sulla testa generose offerte per gli dèi immobili; gli uomini, “di bianco vestiti”, si accingono anch’essi a salire i gradini che portano al tempio, a cingere le mani in preghiera, in riverenza verso gli dèi che – come scrisse Saramago – sono “rassegnati, calmi e disinteressati”.
Galungan non è tanto la vittoria del “giusto” sullo “sbagliato”, ma piuttosto la vittoria di ciò che è, su ciò che si illude di essere.
Templi illuminati nella notte di nuvole e stelle.
Percussioni balinesi risuonano nella notte nuda e invitante.
Durante il giorno sono tornati a volare gli aquiloni nel cielo di Bali, segno che il monsone è ufficialmente finito. Bambini e adolescenti ricominciano a correre per le strade, a piedi o sui motorini, tenendo gli aquiloni sopra la testa.
I Barong, creature sacre dal volto feroce e dallo spirito benigno, continuano a circolare per le strade, danzando tra tamburi e incenso come guardiani ancestrali.
C’è tanta di quella vita, su quest’isola.
Tanta di quella vita della quale mi accorgo.
Tanta di quella vita che osservo, e della quale non mi scordo.
Sono giorni meravigliosamente arrendevoli.
Sono pagine che riempio con una lentezza sublime.
Sublime è il ripetersi di queste giornate che si somigliano moltissimo – ma poi, alla sera, quando mi sciolgo a letto, le ringrazio per la loro unicità.
Mi piace osservare la vita locale, umana e animale, che si svolge quotidianamente lungo il sentiero sotto casa.
Tutto si ripete con una puntualità giornaliera e ineluttabile: lo stesso vecchio che, alla stessa ora, lava i panni nella canalina d’acqua grigia che costeggia il sentiero; gli stessi gesti di devozione, ampi e circolari, compiuti davanti a ogni abitazione, come se ogni casa fosse un tempio.
Anche Ohana ripete i suoi gesti, i suoi versi e i suoi rituali con una canina abitudine.
E io con lei – ma con uno scivolare di pensieri più percettibile dei suoi.
Eccola, un’altra notte di luna nuova. Un altro cerchio che inesorabilmente si chiude.
Luna nera, ma il cielo è colmo di vita.
Guardo il cielo densamente popolato di stelle e altri corpi celesti.
Una stella cadente irrora di luce discendente la piccola porzione di cielo visibile da qui.
Non esprimo il classico desiderio. Non stasera.
Piuttosto, mi fermo e ricordo: mi ricordo dell’importanza di dimostrare, anziché blaterare; manifestare, anziché forzare.
Si conclude qui uno dei diari più lunghi per tempo di stesura: più di cinque mesi.
Cinque mesi di vita vissuta e non dimenticata, di inchiostro a tratti, ma inchiostro profondo.
Un’ultima pagina che ha comunque impiegato tre giorni a essere riempita.
In fondo, non si tratta mai di riempire.
Ma piuttosto, di vuotare.