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La tua prima luna Pt.2
Era al secondo anno di Liceo Artistico, ma aveva deciso che non avrebbe preso la maturità.
Si era guardato dentro e aveva compreso che ormai non gliene fregava più nulla del diploma, aveva un altro progetto di vita: sarebbe andato in Tibet, per diventare un monaco buddista.
L’illuminazione non aveva bisogno di attestati scolastici: “Om mani padme hum” (Salve o Gioiello nel fiore di Loto).
Sapeva che ciò che stava compiendo, giorno dopo giorno, era una fuga, il suo rifiuto di vivere una vita che non voleva, con una serie di cose e azioni che gli erano divenute aliene; lo sentiva uno spreco del suo tempo d’esistenza.
Si sentiva allo stesso tempo eroico e vigliacco per aver scelto quella modalità di rifiuto che, di fatto, era solo una lotta apparente, una ribellione a tempo determinato.
La vera fuga era quella di chi aveva il coraggio di scappare di casa, come avveniva nel personaggio della canzone “La tua prima luna”, di Claudio Rocchi, un cantautore emergente che sapeva interpretare il sentimento e le inquietudini di molti giovani della sua generazione.
Il suo amico Giulio lo aveva scoperto di recente e gli aveva fatto conoscere quella straordinaria canzone all’interno dell’LP dell’autore: “Viaggio”.
Scappare di casa, lasciarsi alle spalle la propria casa, la propria famiglia, la scuola, quel mondo che non aveva più significati e valori condivisibili, come facevano molti suoi coetanei che avevano trovato il coraggio di scegliersi un’altra storia di vita in cui credere.
Fuggire di casa a sedici anni era un passo che non aveva il coraggio di compiere, non sapeva come avrebbe potuto sopravvivere privo di denaro e senza un’idea di dove sbatteresi.
Posto che la polizia non lo rintracciasse mentre dormiva nel vagone vuoto di un treno in qualche stazione, su una panca di un giardino pubblico o in qualche vecchio fabbricato in abbandono, essere senza soldi e un tetto sulla testa significava vagabondaggio.
Significava elemosinare agli angoli di strada o all’uscita d’una chiesa, fare degli scippi, rubare cibo nei supermercati, oppure prostituirsi su qualche viale notturno per maturi omosessuali.
Magari spacciare roba, diventare un pusher con tutto ciò che comportava, anche un arresto e diversi anni di galera.
A lui ogni tanto piaceva farsi una canna insieme a Giulio, ma fumarla era una cosa, trafficarla per venderla un’altra, non ci era tagliato.
La sua fuga era una ribellione infantile, una vana battaglia di liberazione che si concludeva a ogni rientro a casa per nutrirsi e dormire, di questo ne era conscio.
Una libertà illusoria che si sarebbe conclusa presto o tardi: quando sarebbe venuto fuori il numero di assenze che aveva collezionato, falsificando la firma di sua madre, per tagliare dal Liceo.
Ma questo lo sapeva e avrebbe affrontato quella colpa e il suo castigo quando sarebbe stata l’ora.
Un’ora che sentiva avvicinarsi inesorabile come lo scorrere d’una sabbia verso il fondo stretto d’una clessidra.
Ogni tanto ci rifletteva e ne provava angoscia, ma poi pensava al suo futuro, alla sua meta finale e sapeva che questa sarebbe stata solo una delle prove nell’arduo cammino che lo attendeva.
Del resto era prevedibile, quando si compivano scelte estreme, che qualche danno fosse d’obbligo: non si facevano frittate senza rompere i gusci delle uova.
La paura era connaturata alla realtà umana: “Padre, allontana da me questo calice amaro”, aveva detto il Cristo, in preda alla paura, durante l’ora della sua passione nell’orto dei Getsemani.
Se aveva provato paura, in vista di ciò che l’attendeva, lui che era figlio di Dio, poteva provarla, senza vergogna, anche lui che era l’ultimo degli uomini in terra.
Quel che dovrà essere sarà, secondo il Karma di ognuno, inutile preoccuparsene al momento, ora c’era solo da respirare a pieni polmoni quella nebbia diaccia e questa libertà a termine.
All’inizio il progetto di andare in India era comune a lui e Giulio, fare quel viaggio insieme al compimento della loro maggiore età, ma ora Giulio ci aveva ripensato, non era più certo di volerlo fare.
Si era messo con una gatta morta che gli faceva gli occhi dolci e lo chiamava: “Pillypollo”.
Una “plattina”: così venivano definiti i ragazzi della Torino bene che si riunivano, bardati dei loro simboli estetici d’appartenenza, nel bar-cremeria Platti, in corso Vittorio Emanuele, in centro città.
I “plattini” si distinguevano per essere fatti in serie: impermeabile Burberry color blu notte con fodera in tartan crema e verdone, scarpe Barrows a punta, color cachi e vespino 50 Primavera; tendenzialmente di destra se non fasci del tutto, invariabilmente cretini e montati sulle biglie quadre.
Era incredibile che Giulio, freak com’era, si fosse messo con una così, eppure era accaduto e questo lo stava cambiando.
Per lui non era più importante il raggiungimento del Sa?s?ra e del nostro viaggio in India non ne parlava più.
Aveva in progetto di laurearsi in architettura dopo il Liceo, magari mettere su famiglia e fare dei figli con la sua “plattina”. Non era d’accordo neppure sulla sua maniera di rifiutare la piatta normalità della loro esistenza, diceva che questo modo di rifiutare l’impegno scolastico e la vita fosse una fuga sterile e inutile.
Gli faceva male che Giulio lo vedesse come fosse un disertore.
Ma non sapeva proporre alternative, la sua via di fuga l’aveva trovata fra le gambe di quella sgallettata, che per altro non vedeva lui di buon occhio. Quando Giulio gliela aveva presentata e qualche altra rara volta in cui si erano visti in tre, lei lo aveva sempre guardato con un misto di sopportazione e diffidenza, sempre occultati dietro un muro di falsa cortesia e ipocriti sorrisi.
Lui non piaceva alla “plattina”, del resto neanche lei piaceva a lui; sicuramente non apprezzava il suo aspetto, poco conforme ai suoi criteri estetici col suo abbigliamento straccialo, riteneva senza dirlo che lui fosse una compagnia sbagliata per Giulio.
Uno che lo portava sulla cattiva strada: roba da ridere, come se Giulio fosse uno che si lasciasse traviare o solo influenzare da qualcuno.
Di certo ignorava che, a propormi la prima canna della mia vita, fosse stato Giulio o a insegnarmi come fregare gli LP dei nostri gruppi rock, nel grande negozio di strumenti musicali: “Maschio”, sotto i portici di piazza Castello.
Giulio, il suo “fratello di sangue”, si era perso per strada, adagiandosi nell’accettare le regole della macchina che regolava il destino del singolo in una società di falsi miti e di ore d’aria limitate.
Alla peggio aveva deciso che ci sarebbe andato da solo in India, quando avrebbe raggiunto la maggiore età.
Non aveva idea di come ci sarebbe arrivato, ma mancavano due anni a quella data, aveva tempo di preparare il viaggio e di pensare al modo; magari usando l’autostop, all’avventura con solo uno zaino a spalla e il Mala in mano: il rosario buddista che si tiene durante la meditazione e si fa scorrere un grano alla volta tra il pollice e il medio, recitando il mantra desiderato.
Avrebbe fatto alla maniera usata dagli hippy di tutto il mondo per i loro lunghi viaggi: al momento il problema non si poneva.
(Continua)