Açores

scritto da AGapi
Scritto 2 mesi fa • Pubblicato 2 mesi fa • Revisionato 2 mesi fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di AGapi
Autore del testo AGapi

Testo: Açores
di AGapi

Ero stato avvertito, 
ma non riuscivo a vestire quella poiana della mia paura. 
La pratica della traina le aveva risvegliato un ardente istinto di caccia
e a me toccava invece riceverla sul guanto. 
Per nutrirla, sottostimando la sua risoluta indipendenza. 
Dunque atterrò sul mio braccio, coperto dal guanto solo per metá.
Incrociò il mio sguardo, 
rifiutò di partire, 
alzò la zampa con decisione, per poi arpionare e strangolare la parte di braccio che rimaneva scoperta, indifesa. 
"Per chi mi hai presa?" 
Per un giorno non riuscii a muovere il braccio, eppure nemmeno una goccia di rabbia mi colava dal cuore. 
Da lí a poco sarei partito per le Azzorre.
Quel pensiero, a differenza della poiana, conosceva bene la mia paura. 
Qual era? 
Il non aver ben chiaro quale fosse lo scopo di quel viaggio, 
tanto da risultare fuoriluogo in mezzo agli sconosciuti che avrei incontrato. 
Il timore mi portò per mano fino al ritrovo con i primi arrivati,
quasi fossi un bambino accompagnato dalla mamma fino all'uscio di scuola.
Ricordo bene quanto piansi la prima volta, ma lí entrai in un'altra dimensione.
Manca poco perché sia passato un mese e, dopo aver rischiato di non ricordare nulla,
come un sogno che non vuole lasciarsi afferrare,
ora posso dire di vedere tutto chiaramente. 
Un pão de penejo d'abacate e ovo, da semplice paninetto con avocado, uova e pomodorini, diventa una litanía portoghese pronunciata per gioco e,
come gioco, 
unisce chi caldeggia compagnia. 
La pioggia e la foschia impediscono la prima escursione. 
Non vogliono oscurarne la bellezza, 
bensì sperimentarla dove risiede davvero, 
nelle parole "meglio che sia andata così",
perché é nel "cosí" che nasce un gruppo.
L'acqua gelida dell'oceano mi scombussola i battiti fino all'infarto.
Non mi arrendo, 
entro piano
insieme a chi viaggia alla mia velocità e soffre, 
inciampa e sussulta al mio fianco. 
Le piccole birre Sagres, o le umili Bock senza Super, richiamano a contemplarmi dall'alto,
a prendermi il tempo per salutare e lasciare andare, 
prima che tutto diventi parte di me e lo possa emanare dalla mia pelle. 
Le timide cameriere locali assistono a balli di gruppo improvvisati. 
Lí, sintomi di danza nascono e si sviluppano nelle cene in casa, 
senza il bisogno di toccarsi, 
se non sfiorarsi l'anima con gli sguardi e i gesti che turbinano nell'incrociarsi per allontanarsi e ritrovarsi.
Trovo un tavolo apparecchiato fuori dalla caserma dei pompieri, il nostro alloggio, 
imbandito alle sei del mattino per la colazione pre-scalata.
La guida,
con gli occhi da padre,
si premura orgogliosa che io noti la mia impresa,
per poi leccare copiosamente lo schermo del telefono
e con ghigno gaio consigliarlo per la pulizia del mio.
In cima,
le posture ed espressioni immortalate non sono quelle di chi é formalmente in posa, 
ma sono distorte da parole-guida come "Caramulo" o dai sorrisi di panini appena morsi.
Le nuvole in alto mi descrivono infinito, 
come anche il riconciliarsi a terra dopo una lunga giornata.
Nelle grandi spese per la cena, assaporo casa 
e non sono solo a constatare quanto devo comprare. 
Gongolo nell'appurare quanto utile sia risultata la mia busta dell'ipercoop tanto sbeffeggiata. 
I due chef di casa desiderano che io abbia l'hamburger piú fortunato, 
il piú buono che abbia mai mangiato, 
mi strappa sfacciata goduria. 
Camminiamo in stato di ebbrezza, 
circondati nel buio dagli schiamazzi concupiscenti dei cagarri in calore. 
Canto, sdraiato, accoccolato, in piedi davanti a un microfono. 
La mia voce stonata si confonde con le altre e non c'é pubblico che possa impensierirmi. 
Siamo vicini,
sotto le stelle, 
sotto le coperte, 
chi mi é accanto si accomoda sui miei spigoli
e, strano, mi stupisce sia comoda. 
Pulisco i pesci dalle lische per offrirli al mio tavolo, 
e li ricevo
in un perfetto equilibrio di cura. 
Mangio un mollusco sospetto, 
ne bevo l'acqua. 
Il mio corpo non lo rifiuta, 
non mi rimprovera
e per una sera esco da quello schema insano. 
Un delfino gasatissimo raggiunge la nostra barca
e dall'onda la sua ombra salta fuori e si proclama vincitore. 
Rimango spesso indietro. 
Accendiamo le torce e sto ancora caricando la mia. 
Mi permetto di osservare e sentirmi. 
Mi avvicino e ogni tanto qualcuno si affida. 
Concede una parte di sé, della sua storia, della sua sofferenza, delle proprie passioni e desideri, 
e altri li abbraccio nel non sapere. 
Condividiamo scenari surreali, 
dove il bizzarro e l'umoristico sono la piú intima parte che confidiamo. 
Sento di potermi spogliare sotto la pioggia, 
non la rifiuto e lei non mi ammala. 
Rido forte per percepirmi intero, 
contagiare, 
per far sí che gli altri facciano parte del mio intero. 
Poi, camminando e parlando,
mi perdo, 
ma non sono solo. 
Una luce delicata si mostra al mio viso, 
si siede accanto
e narra quell'attimo come il piú bello della giornata. 
Per me é il tatuaggio per cui non serve inchiostro. 
Peniamo le stesse fatiche e le trasformiamo in parodie. 
All'aeroporto accetto del mango, 
per entrare nel mondo di chi mangia per condividere. 
Poi lo saluto piangendo, 
come un me piccolino che rivedo fiero sul mio percorso. 

L'altro ieri, 
un bambino mi rimanda ostinatamente una frase:
"non ti riconosco!". 
Mi viene da ridere a pensarci. 
Gli esploratori portoghesi, all'inizio del XV secolo, 
diedero all'arcipelago il nome Açores perché credevano fosse popolato da sparvieri (Açor). 
In realtà erano poiane. 



Açores testo di AGapi
5

Suggeriti da AGapi


Alcuni articoli dal suo scaffale
Vai allo scaffale di AGapi