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LA QUERCIA.
Ai margini estremi del bosco, proprio laddove una ghianda era stata condotta dal caso in un giorno lontano, una quercia s’elevava, poderosa e solitaria.
D’Estate, le sue foglie andavano ad intrecciarsi, assumendo le forme d’un sontuoso baldacchino, che il vociare confuso degli uccelli animava incessante con il proprio gorgheggiare argentino, mentre, in Inverno, i suoi lunghi rami nodosi, già di lontano, si potevano scorgere protendersi arditi, quasi a voler ghermire l’immensità del cielo.
Come spesso suole accadere, annichiliti dal peso delle nevi, o travolti dal turbinare impetuoso dal vento, gli altri alberi del bosco avevano avuto a ripetutamente schiantarsi nei suoi dintorni, ma la vecchia quercia si era rinchiusa in un’orgogliosa noncuranza. Abituata a dominare da secoli tutta la selva circostante con la possanza della propria mole, non si rivelava più avvezza a considerare le vicende che avevano ad alternarsi sotto la sua ombra. Dunque, nella sua percezione, questo genere di accadimenti era andato a costituire, ormai, soltanto il vago retaggio di un ricordo; una riminiscenza, viepiù remota e pallida, di quegli anni, trascorsi e quasi dimenticati, che l’avevano vista, tenero germoglio, tremare trepidante, fra le erbe del prato, all’appressarsi degli animali del bosco, oppure, modellatasi quindi in giovane albero, fremere timorosa, al sopraggiungere di ogni bufera. Ma poi che era cresciuta maestosa, il suo alto fusto aveva finalmente dominato altero, al di sopra di ogni altro essere arboreo a lei vicino e, dunque, ora non correva più alcun pericolo, né, d’altronde, si rammentava più d’averne mai corsi, poiché, col passare del tempo, era gradualmente rimasta esclusivamente conscia di come la grandiosità compatta dei suoi rami e la salda profondità delle sue radici valessero a tenerla al riparo da qualsiasi minaccia terrena.
Giust'appunto sul finire d’una torrida Estate, proprio sul cielo sovrastante al bosco, un vento malvagio, fuggito da chissà quale livida porta della reggia di Eolo, condusse a passeggio una schiera sfrenata di foschi giganti, composti di nubi foriere di tetre tempeste, i quali, litigando fra loro, immediatamente empirono l’aria dei lumi d’argento di mille saette infuriate. Mentre, al frastuono rimbombante della loro contesa, tremavano impaurite anche le rocce e le fonti ecco che, d’un tratto, un lampo, sfuggito per caso di mano ad un cupo colosso, percorse la quercia.
L’albero, stupito, sentì nascere dalle sue viscere, sempre più grave, un funesto scricchiolio e cominciò a tremare, mentre i suoi rami – dapprima impercettibilmente, ma, quindi, con un moto sempre più deciso e violento – prendevano a declinare verso il suolo. «Non può essere possibile!», pensò la quercia, per un rapido istante, ma, infine, con un tonfo sordo e repentino, si sorprese a crollare supina sul terreno. «Perché? Perché mai proprio a me?», affranta, si chiedeva, a quel punto, la quercia, «Quale destino perverso ha mai potuto decretare che, dopo essermi stato permesso di crescere tanto, dovessi poi finire a giacere sul suolo, accomunata alla turba strisciante dei cespugli contorti e vergognosi?».
Trascorsero lenti gli anni, mentre i funghi ed i muschi continuavano a corrompere, con crescente vigore, le spoglie della vecchia quercia, la quale, giorno dopo giorno, avvertiva le proprie fibre addormentarsi insensibili ed annullarsi, poco a poco, nella spira mortale della terra; tuttavia, quella parte dell’albero che ancora sopravviveva, con foga esasperata, seguitava a domandarsi: «Perché? Qual è mai il senso della mia caduta? Perché?».
Sopraggiunse una fitta nevicata che ravvolse tutto il bosco nella gelida morsa di un inverno che pareva non volersene più fuggire, mentre seguitava ad assiderare crudele gli animali, spingendosi persino a raggiungerli nella profondità più intima delle loro tane. L’ultimo ramo ancora sensibile della quercia abbattuta, incurante di tutto quanto intorno a lui, persisteva ad arrovellarsi nel suo eterno dilemma e non percepì neppure la stretta della mano scarna di un bambino che lo aveva ghermito.
Il ramo della quercia, sempre immerso nella propria riflessione, d’un tratto, s’avvide d’essere trascinato lontano, mentre si faceva strada in lui la segreta speranza di potere alfine comprendere.
Il bimbo, dopo un lungo cammino, aprì la porta sgangherata d’una misera casupola e pose quel ramo, fra le pietre annerite di un focolare spento. Quasi immediatamente dopo, la fronda di quercia avvertì diffondersi intorno a lei un lieve bagliore, mentre sentiva le proprie fibre ghiacciate pervadersi di un tenue tepore, che andava crescendo. No, non si trattava della stessa carezza del sole d’Estate, ma questo non pareva importare al ramo di quercia, che si protendeva soltanto, nello spasmodico tentativo di poter cogliere l'indizio di una risposta al suo eterno quesito che, finalmente, sperava potergli giungere, per una via misteriosa.
La luce ed il calore si rafforzavano, sempre più vividi e penetranti, mentre il ramo si sentiva chiaramente mancare, nettamente avvertendo come, entro poco, avrebbe del tutto cessato di esistere; eppure, ancora non gli riusciva di comprendere il senso di quell'incomprensibile arcano, che aveva misteriosamente governato il corso della sua esistenza.
La risposta che tanto aveva bramato gli giunse in un istante, proprio un attimo appena prima d’annullarsi per sempre: la lesse riflettersi negli occhi di un vecchio che, stanco, s’apprestava a perdersi nel vuoto del tempo ed in quelli d’un fanciullo che, fiducioso ed inconscio, s’apriva all'avventura della vita.
Il giorno seguente, il refolo tiepido e delicato d’un leggero vento primaverile s’insinuò nel camino e, poi, quell'aura, aprendo la porta della casupola, se ne fuggì su nel cielo, recando via con sé, nel suo garbato andare, anche il candido turbinio di una lieve manciata di cenere di quercia …