Signore, come ben sapete, l'uomo d'ogni epoca della Storia è sempre stato pervaso dall'impellente bisogno di una superiore trascendenza. In modo ingenuo, tentava d'esprimerlo, traducendone l’anelito in un apparato rituale, giacché, così procedendo, egli intendeva puerilmente avvicinarsi al fulgore incomparabile della Vostra grandezza ultraterrena.
Ogni forma di civilizzazione evoluta ha saputo custodire l'esistenza di una propria particolare dimensione di sacralità, psicologica ed esteriore insieme, manifestandola attraverso pratiche assolutamente dissimili, rispetto a quella materialità che connota la quotidiana esistenza. A Voi Signore venivano dedicate le realizzazioni architettoniche più solenni e più grandiose; nei Vostri templi trovavano il principale ricetto quelle estrinsecazioni dell'arte nelle quali l'uomo tentava una sublimazione, materialmente tangibile, della sua estatica emozione innanzi a Dio.
Ve lo avevo anticipato Signore: si trattava soltanto dell'umile frutto di una volontà chimerica, della misera offerta di un ingenuo stolto, il quale, pur tuttavia, tentava sinceramente di dedicarVi e donarVi il meglio di quanto egli stesso potesse produrre e possedere. In tal modo, egli veniva a ripetere il gesto di quella povera vedova, che Voi tanto apprezzaste, la quale ebbe a versare il suo ultimo modestissimo obolo nelle casse del Templio, in quel giorno ormai tanto lontano.
Di certo, sarà vero che ovunque due o più uomini si riuniscano nel Vostro Santo Nome, Voi sarete presente, ma, da quando si è ripudiata la forma millenaria di ascesi che della nostra cultura era parte integrante, non riesco più a percepirVi, Vi ho perduto! I riti che oggi si officiano nelle Vostre basiliche mi procurano soltanto quello scettico turbamento che, nel passato, mi assaliva, ogni qual volta, casualmente, avessi avuto ad imbattermi, per televisione, allo svolgimento delle cerimonie delle più disparate fra le sette riformate d’oltreoceano.
Rammento ancora, con struggente nostalgia, fra le note dell'organo e l'incenso, l'aleggiare impercettibile della Vostra mistica Presenza, proprio mentre le preci latine si dipanavano, con inconfondibile solennità, in una reiterazione ciclica, che mi sapeva suggerire la sensazione dell'eternità infinita. Seppure bambino, per un inesplicabile istinto, mi rendevo conto di come ogni sequenza, ogni gesto rituale, prima di me e per millenni, fossero stati ripetuti, sempre uguali nelle epoche, dagli uomini che mi avevano preceduto nel tempo. A quel pensiero, mi sentivo ingenuamente più forte e, talora, la suggestione di questa atmosfera giungeva a fugarmi ogni dubbio, portandomi a credere, per un attimo almeno e con salda certezza, nella Vostra reale Presenza.
Mi sentivo spiritualmente avvinto, nella mistica atemporalità della Messa, alle tante generazioni che, in quel sacro edificio e nel mondo, mi avevano preceduto: chissà quanti, tanto fra gli umili quanto fra i "grandi" della Storia, avevano potuto fruire di quei medesimi spunti evocativi dai quali i loro animi si erano poi mossi, sospinti nella direzione di una vita onorata e modesta, oppure, alla volta della fama terrena o dello spirito! Come me in quell’istante, avevano compiuto gli stessi gesti rituali, recitate le stesse preci, uditi gli stessi canti e, forse, addirittura percepite le medesime armoniche consonanze, quali echi di un tempo che non può mai trovare fine.
Poi, quasi d'improvviso, con rapidità proteiforme, tutto è mutato! I riti si sono banalmente trasformati in un’ombra svilita, e del tutto deprivata dell’anelito ad una superiore trascendenza, confinata in quell'esistenza materiale che ci accompagna ogni giorno. Non si è più avvertito, fra le volte, il sonoro echeggiare di quella predicazione che, anche nelle campagne più sperdute, poneva l'anima, impreparata e titubante, a fremere dinnanzi all'orrore del peccato, finalmente avvertita del proprio bisogno della Misericordia Divina! Si è imposta la moda dei sacerdoti concilianti che, allorquando non si limitino alla scialba parafrasi di un brano della Sacra Scrittura appena letto in lingua italiana, indulgono in divagazioni inconcludenti, intrise d'un terzomondismo d'accatto, nonché di una sociologia, arcaica e ripetitiva, che sconta il pesante connubio con concezioni, figlie d’un materialismo d’indole marxista.
Il nesso con la spiritualità di quei nostri antenati che ci hanno preceduto nei secoli si è mestamente dissolto, insieme con il latino della liturgia, il Diavolo, gli Angeli, il Purgatorio ed un certo numero di Santi. Oggi, piuttosto, usano i "colorati", i tossicodipendenti ed i poveri, ma solo quelli materiali, s'intende! Infatti, di questi tempi, lo spirito è stato convertito in una merce alquanto rara e, del resto, non lo affermava anche San Giacomo Minore (mi si voglia usare venia per il latino): «Fides sine operibus mortua est.»? L'importante, dunque, è l'agire, l'operare, il fare "quocumque modo" e, purché opportunamente orientate nella direzione di un modernismo eversore, le devianze dottrinali neppure paiono più rilevare.
Oggi, oh Signore, è stato ufficialmente abolito anche l'orgoglio di essere cristiano. Dalla lettera della "Dignitatis Humanae" e della "Nostra Aetate" si evince, ad esempio, che, al presente, per pervenire al Paradiso non è più assolutamente necessario l'essere cattolici, pure se si abbia avuta una concreta possibilità di conversione. Questo poiché l'uomo – quasi potesse estinguere quel retaggio del peccato originale che l’ha reso dissimile al Dio suo Creatore – per sua natura, è portato a cercare la Verità e, molto probabilmente, è da quest'ultima radicale riforma dell'etica cristiana che discende l'emotiva comprensione per la quale, sino all'inverosimile, ci si prodiga, nei confronti di qualsivoglia congerie di filosofia materialista, di culto idolatrico o d'estranea religione. Tutto questo, però, con una sola e specifica eccezione: quella tradizionale forma di pratica religiosa nella quale, talvolta, riuscivo a ravvisarVi.
Insieme con la mistica poesia della liturgia ripudiata, Vi ho davvero perduto oh Signore! Ora tutto si è fatto buio intorno a me che, da molti anni, mi sono ormai ridotto a cercarVi nella penombra appartata delle chiese deserte, indagando l'incerto baluginio delle candele. Oppresso da una dolorosa nostalgia per quella Vostra esternata misura che mi è stata carpita, mi sono vie più rinchiuso nel silenzio rassegnato della preghiera individuale, sorretto dall'inconfessata speranza che Voi possiate esistere ancora.
Ahimè, non posso reputarmi un malfattore, almeno nel senso penalmente giuridico del termine, non sono dedito allo spaccio od al consumo di sostanze psicotrope, oltre tutto appartengo persino ad una stirpe europea autoctona e neppure mi ritrovo ad essere materialmente derelitto. Proprio per queste ragioni, dunque, mi ritrovo ad essere una di quelle pecorelle smarrite che la Chiesa, Vostro Corpo Visibile, non vuole più assolutamente cercare, ma, nella sua millenaria saggezza, ha deciso di lasciar vagare, abbandonandola agli assalti dei lupi del dubbio e del peccato ...
La pecorella smarrita. testo di Michele 57