Gesù fra i grappoli

scritto da evoluzione nomade
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Testo: Gesù fra i grappoli
di evoluzione nomade

Gesù, che figura inflazionata. Gesù rimane, se non un personaggio storico, se non il figlio d’uno dei tanti Dii immaginati dall’uomo, un emblema. Poco più e non tanto di meno.  Per questo sarebbe importante provare a trovare gesù quotidianamente, nelle piccole azioni. Non per cristianità, suvvia e neppure per misera fede: piuttosto per trovare modelli positivi in questa contemporaneità malata, come malata è tutta la storia, sia mai escluderne parti anche piccole. Trovare questo emblema però comporta un esercizio difficile e cioè l’essere in grado di traslare i caratteri della figura originale: Gesù di Nazareth, in caratteri attuali. Come la stessa parola varia a seconda del periodo storico in cui la si esprime allo stesso modo cambiano le prerogative d’un santone. Quindi niente Saio, niente mercanti e niente sfida agli ebrei (sia mai che si cada in strani riferimenti al nazionalsocialismo). Niente nascita da madri certe e padri divini. Qualcos’altro è Gesù oggi, per me. Per voi può essere tutt’altro, tuttavia non importa, io il mio l’ho trovato.

Vercheny è un minuscolo paesino di 300 anime nel dipartimento della Drome, nella regione francese dell’ Auvergne-rhone-alpes. È un paesino di vallata che fa parte di un più ampio mosaico di paesini dediti alla produzione del celebre Clareitte de Die. Un vino bianco che senza eresia definirei simile ad un prosecco. In questo paesino e in tutti i limitrofi si estendono vigne sterminate che danno un uva dai grappoli grossi, gli acini piccoli e il colore dorato. Il sapore va dall’acido allo zuccherino in tutte le sfumature. In questa zona meravigliosa della Francia, dove la natura regna sovrana ogni anno nel periodo che va dal tramonto d’agosto all’alba d’ottobre s’avvicendano centinaia se non migliaia di stagionali dediti alla raccolta dell’uva. Armati di cesoie piccole e affilate si fanno strada nei meandri più intricati delle viti alla ricerca del frutto tanto prezioso: l’uva appunto; linea dopo linea mutano il colore del paesaggio, la forma di esso, come se Dio fosse divenuto di colpo amante del collettivismo sovietico. Gli stagionali sono ottimamente pagati e soggiornano perlopiù in camping municipali forniti di tutti i servizi: i più fortunati in un camper, i meno in delle tende. Questi camping diventano quindi i ricettacoli perfetti per tutta una varietà di umani delle più disparate storie e origini. Ci sono i magrebini che con fame e voglia di affermarsi divorano ettari di campi in me che non si dica. Ci sono i ravers e gli scoppiati che qui trovano ristoro e pace in un senso quasi francescano. Ci sono i viaggiatori perpetui, i nomadi. Persone che nella vita diffidano della sedentarietà e vedono il mondo senza linee che lo dividono ma solo come un immenso calderone di diverso e unico. Ci sono poi, ultimi ma di primaria importanza per il nostro racconto, gli eremiti. Esseri particolari e variegatissimi. Ci sono donne che hanno superato la mezz’età dall’aspetto freak e la pelle meravigliosa, che in altri tempi sarebbero state sicuramente tacciate d’esser streghe. Poi ci sono uomini intorno alla trentina, magari laureati, taciturni, che sembrano i prototipi perfetti di bombarolo o school-shooter.  Ecco dove si collocava Sasha. Il nostro protagonista. 

Sasha Guler nasce a parigi 27 anni prima che questa storia avvenga, da padre turco e madre francese. Appena nato si trasferisce in Russia dove la madre lavora e dove i suoi genitori si sono conosciuti. A Mosca vivrà solo due anni ma il soggiorno rimarrà scritto nel suo nome: Sasha. Il cognome Guler invece è tragicomico: in turco significa colui che sorride e lui proprio non sorrideva mai. Aveva l’aspetto composto d’un letterato, il tono sempre calmo e basso e l’unica cosa di cui amava parlare era la filosofia. Non si può comprendere dove finisse la follia e iniziasse il filosofeggiare, i confini sono troppo labili. Sta di fatto che spostandosi alla realtà, Sasha non possedeva granché: una piccola Ford fiesta rossa 3 porte, con almeno venticinque anni sul motore, con gli interni in parte smontati e una piccola tenda. Lui appariva molto simile all’icona classica di Gesù: pelle olivastra, capelli lunghi, barba incolta. Il suo fisico pareva sano nonostante la palese malnutrizione. Si trovava in quel di Vercheny per fare il porta secchi durante la raccolta dell’uva. seau! E lui accorreva. Tutto il giorno, tutti i giorni. Un lavoro relativamente pesante ma per lui, probabilmente, impossibile da sostenere più che altro mentalmente. Sicuramente poi alla sua già instabile salute mentale non poteva giovare qualche suo vizietto malcelato da frequenti sbalzi d’umore ed un vagheggiare anche alle domande più semplici. Cocaina o Lsd si può presumere senza per questo emettere sentenze.

Seau! Seau! Seau! Nella sua testa rimbombava oramai da molti giorni così decise di mollare il lavoro e scappare nella vicina Crest per non meglio specificate cose da fare.

All’altro capo dell’animo umano, se di esso si potesse fare una cartina tornasole od un ventaglio, c’era tale Alain. Alain Dupont era un uomo sulla cinquantina nato e cresciuto nel terriccio fertile della drome. La sua corporatura tradiva un amore spassionato per il cibo e il vino e i suoi discorsi raramente avevano senso. Le sue giornate erano leggere come il suo voto che andava imperterrito alla Le Pen. Il suo francese di campagna era poi incomprensibile ai più, semplicemente sbiascicava parole con uno strano accento e alla fine della frase puntualmente rideva. Rideva di gusto. Tutto il giorno continuava imperterrito. Non aveva famiglia e sua moglie era fuggita a Lione molti anni prima. Era stanca della vita di campagna e voleva far fruttare la sua laurea in economia. Si erano sposati  in fretta e furia a causa di una improvvisa gravidanza. Avevano vent’anni e avevano fatto tutte le scuole insieme. Una notte insieme e il caciarone e la prima della classe combinarono, inesperti, un disastro. A due mesi dalla fine della gravidanza però lei, purtroppo, perse il bimbo. Si ritrovarono sposati, con un mutuo, ma niente bimbo e niente amore. Alan iniziò a lavorare come contadino e ben presto riuscì a trovare una bella posizione, in cui lavorava poco e comandava molto, in una grossa fattoria che produceva il Clairette de Die. Lei continuò gli studi mentre lavorava part time in un Proxi, uno dei molteplici della catena, che offriva nei piccoli centri l’essenziale per una spesa. Alain come dicevamo era una sorta di sergente in capo dei campi di questa fattoria, e Sasha un porta secchi. I due si incrociarono.

Quando due opposti sociali si incontrano, che se ne dica, non sempre o quasi mai nasce l’amore, piuttosto si genera l’innesco perfetto per la follia dell’uno o dell’altro.

Sasha era a Crest da due giorni quando nella sua testa tornò a rimbombare quel seau! Che tanto lo aveva ossessionato  ma in aggiunta arrivò anche la risata fragorosa di Alan, e i suoi fiumi di parole. Sdraiato nella sua tendina, in mezzo ad un campo verde poco prima della parte rocciosa che sovente si può trovare ai bordi di un fiume, si teneva la testa tra le mani come soffrisse di emicrania. La Drome rombava ma a lui pareva di sentire solo la voce di Alan. E poi seau! Seau! Non mangiava altro che fette di salame piccante confezionato da giorni. Lo stomaco gli bruciava ma lui non riusciva a non vederci una correlazione stretta con l’ansia che gli aveva creato l’incontro con quell’uomo così becero ai suoi occhi, quello che lui avrebbe disdegnato vedere in qualsiasi essere vivente lui ce l’aveva. Era ignorante, razzista, superficiale all’estremo. Sembrava non curarsi dell’esistenza d’altro nel mondo se non sé stesso. In questo, a dire il vero, questi due estremi si toccavano chiudendo il cerchio, fatto di infiniti punti, degli animi umani possibili. Eh si, il superficiale e l’estremamente profondo tendenzialmente sono tanto egoisti quanto egocentrici allo stesso modo, con diversi modi. Sasha però faticava a rendersi conto, come dicevamo, della differenza tra pensiero e realtà. Proiettava la sua opinione in verità assolute, e le verità assolute in aspettative. Così si ritrovava solo, con lo sguardo d’un cane che è stato lasciato al canile e non è stato però accettato dal branco. Seau!

Alan ogni giorno alla fine del lavoro tornava a casa borbottando fra sé e sé. Lui non smetteva mai di parlare. Arrivato nella sua casa appartata nella parte alta di Vercheny accendeva la tv e commentava, rispondeva alle domande dei quiz, insultava o lodava i politici al tg. Guardava con ammirazione a quel giovane Bardella. Si immaginava dentro di sé che suo figlio sarebbe stato proprio così solo fosse nato. Andando a letto gli capitava di fissare un vecchio poster di Chabal, capitano per anni della nazionale francese di rugby, della drome come lui, bianco e dalle fattezze da orco cattivo. Era temuto da tutti ed era sempre stato il suo idolo. Nei momenti in cui si lasciava andare a considerazioni su sé stesso, lui si vedeva un po' il Chabal di Vercheny. Era solo ma aveva i suoi sottoposti. Non poteva lasciar trasparire assolutamente questo sentimento di debolezza e quindi con loro si intratteneva raccontando barzellette razziste, lasciandosi andare a commenti sessisti e cantando canzoni come la chanson fernande e adieu ali- salut baba. Penserebbe Alain: più affettuoso di così?

Alain aveva i suoi vizi e potrà sembrare banale ma il più irrefrenabile era senza dubbio quello del sesso a pagamento. Con le donne. Ma anche qualche trans che sembra più femmina d’una femmina come si diceva tra sé e sé. Sabato, domenica e mercoledì Alain andava a puttane. Il plurale non è troppo corretto. Andava da una e se non c’era, da altre.

Marie nasce a Lione 27 anni prima di questa storia ed è una ragazza laureata in beni culturali che però a venticinque anni aveva conosciuto il crack. Se ne era disintossicata dopo un anno, lavorava da oramai un anno e mezzo come prostituta solo per ripagare fantomatici debiti a questo algerino che le faceva da pappone. In realtà, come è evidente, era in prigione. Abitava a Crest in una piccola casa non molto fuori dal centro. Lì riceveva i clienti. La sua camera da letto era identica a quella di un motel: impersonale, standard, con le lenzuola sì pulite ma macchiate dal fervore. Marie aveva qualche mese prima incontrato un uomo di cui si era innamorata. Un uomo strano come lei, come si ripeteva quando lo pensava. Quest’uomo però non aveva i soldi per liberarla dalla sua situazione: il pappone aveva chiesto cinquemila euro in contanti per liberarla definitivamente. Aveva pensato di fuggire con lui, ma non è che egli vivesse in condizioni così agiate da permetterle un comodo soggiorno e poi quando si è succubi si è succubi. Lui non era mai stato suo cliente e ne aveva mai voluto sedurla in alcun modo ma nonostante questo era evidente la amasse e la volesse stringere ardentemente tra le sue braccia. La rispettava oltremodo e per chi non è rispettato in alcun modo tanto basta a cadere nei fondali dell’amore con i mattoni ai piedi.

Sasha riuscì a discostarsi dal pensiero di Alain, da quel costante seau! Che aveva nelle orecchie solo pensando a lei, a Marie. Si erano incontrati lì sul fiume qualche mese prima. Lui lì accampato, lei lì in cerca di pace. La vide seduta sulle rocce vicino al corso principale della drome intenta a fissare le alte montagne verdi che attorniano la valle. La vide poi alzare un poco in più quel suo grazioso viso verso le nuvole. Il loro moto veloce quel giorno le continuava a mutare di forma e posizione. D’un tratto sbattevano sulle montagne più alte e si spaccavano i due. D’un tratto lei trasalì. Sasha solo in quel momento s’accorse che rapito da quella visione, perso come sempre nei suoi pensieri, si era avvicinato a lei muto e inquietante. Lei trasalì ma non scappò. A vedere quell’uomo che sì, anche a lei pareva Gesù, sentì una calma che da tanto non percepiva. Si presentò porgendogli la mano e graziosa come il fiore della cicoria che sembra tutto tranne che sovrastare una pianta tanto amara esclamò: sono Marie e tu? Sasha grugnì col tono flebile: “Sasha” e poi con estrema timidezza balbettò uno “sc-sc-scusami”. Lei dopo averlo sentito balbettare cadde innamorata. Da quando ad un uomo non tremava la voce dinanzi a lei. Lui fece per tornare alla sua tana da venti euro della decathlon ma lei lo fermò con lo sguardo. Parlarono, come ad umani in difficoltà si conviene. Si aprirono e poi si lasciarono al vento di quel filosofeggiare morale che i profani della solitudine chiamerebbero il giudizio dei diversi. Era passato un tempo misurabile solo in parole e quindi diremo: mille mila parole dopo il primo sguardo, il cellulare di Marie squillò e lei trafelata s’alzò e con lo sguardò spento si congedò, lasciando il suo numero di telefono scritto su un sasso con un pennarello indelebile. Il lavoro chiamava e in lei si diffuse quella sensazione di panico che a tutti gli effetti era la normalità. Sasha non abituato a quel calore che gli pervadeva il corpo non la salutò, cadde in silenzio per i due giorni successivi. Non c’era filosofia che teneva, ne testo in cui lui avesse letto rimedi a quel suo essere, da quel momento, distratto verso tutto tranne lei. Già lui confondeva l’immagine di quella donna con il suo desiderio di rivederla. In lui rimbombava quella frase, che lei aveva lasciato cadere come fosse una piuma che toccata terra fa il rumore d’un pianoforte volato dall’ultimo piano d’un palazzo troppo alto. Cinquemila euro e son libera. Cinque mila euro e sono libera. Cinquemila euro e sono tua. Quest’ultima era la versione che da lì in poi lui iniziò a ricordarsi. Aveva solo duemila euro, doveva lavorare. Lui peró odiava il genere umano. tuttavia lui, probabilmente, era caduto vittima del peggiore nemico dell’eremita: l’amore focoso e carnale.

Alain tornò quel giorno a casa turbato dall’addio di Sasha. Non che gliene importasse umanamente ma avrebbe dovuto portare lui i secchi fino a che non si fosse trovato un sostituto. Era solo martedì ma aveva voglia di scopare. Chiamò Marie. Non rispose. Decise sarebbe andato a citofonarle come aveva fatto altre volte.

Sasha nello stesso momento decise di andare da Marie. Erano passati due mesi o forse più dal loro primo incontro e tante volte si erano incontrati tra quei sassi sulla riva della drome. Sasha era riuscito a mettere da parte quattromila euro. Mangiava solo salame confezionato, non aveva più gas per cucinarsi, aveva ridotto tutto al minimo del minimo indispensabile. Non erano cinquemila ma se ne sarebbe potuto parlare col pappone.

Alain provò a richiamarla ma non rispose. Sasha fece lo stesso ed ottenne il medesimo risultato. Il pappone a sua volta provò a sentirla ma lei non rispondeva.

Marie aveva scelto anni prima di laurearsi in beni culturali per mediare con la realtà. Lei voleva fare la pittrice ma è sempre la solita storia per i poveri artisti. Tra un “morirai di fame” e un “sei troppo intelligente per fare solo la pittrice, lascia che sia la tua passione” lei desistette da fare belle arti e si diede a quel corso di laurea a mo’ di compromesso, come molti giovani: sapendo che speranza non c’è se non segui i percorsi già solcati dall’aratro sociale. Si laureò a pieni voti ma era cambiata dentro. A mutare quel ciclamino di montagna in arbusto aspro della macchia mediterranea fu un uomo. Al suo ultimo anno di università conobbe questo assistente universitario di nome Paul. Era un pittore con l’animo tormentato. Dalla cocaina. Lei si innamorò nella classica dinamica che intercorre fra maestro e allievo. Iniziò tutto dalle lezioni private che lei chiese a lui. Il biglietto per l’inferno che si nasconde nell’innocenza più candida. Dopo varie lezioni in cui i gomiti si erano toccati, gli occhi intrecciati e i sorrisi per una volta sprecati, lui le chiese se le andasse di posare nuda per lui. Quanti clichè. Lei si spogliò per lui e venti minuti dopo l’inizio dello scarabocchio erano intrecciati come il fieno in una balla. Che sesso che fecero e fu quella la prima volta che provò la cocaina. Maledetta euforia giovanile. Maledette decisioni che non hanno mai gli effetti scritti perlomeno in piccolino come i medicinali. Bugiarde e senza bugiardino. Tre mesi dopo lei era una tossico dipendente e l’amore per quell’uomo era già scemato. La coca l’aveva resa sazia più dell’amore e più dell’arte. Fu così che quando andò a dirgli che sarebbe partita da Lione lui la stuprò, senza che lei opponesse altro che il suo statico immobilismo, come fosse la musa d’un quadro tragico, persa in quel sublime che ad anelarlo ci si finisce succubi. Andò a vivere a Crest e iniziò a fumare la cocaina. In casa sua i piatti erano bruciati, i cucchiaini consumati. Fu così che entrò in contatto con quel tale algerino che le vendeva la coca e lei in cambio si prostituiva, non si rendeva conto che a guadagnarci era solo lui e che lei non le doveva nulla. Dopo altri sei mesi riuscì a smettere, perché intelligente per quanto non lucida lo era sempre. Tenace resistette fra crisi d’astinenza e sesso forzato con uomini di mezza età. Andò dall’algerino ma lui non aveva intenzione di liberarla. La picchiò e la rispedì a lavorare. Livida dentro e fuori Marie non riuscì più a risollevarsi. Fino a quando non incontrò Sasha.

I tre uomini si ritrovarono di fronte a quella casupola. Sasha fu il primo ad arrivare, l’algerino per secondo. Infine Alain. Quando Sasha vide Alain ecco che il suo animo andò in pezzi. Seau! Risate, gli squilli che interrompevano le loro meravigliose chiacchere. Alain! Seau! Le parole buttate. Era un vortice quello che lo attorniava e gli occhi infatti gli si annebbiarono come se una tempesta di sabbia si fosse alzata di colpo e lui fosse un beduino in perenne controvento. Sfondò la porta Sasha, perché di ragionare non se ne parlava proprio. “Marie” gridava ma nessuno rispondeva. Alain e l’algerino invece aspettarono fuori. Entrò in bagno. Le mattonelle di scarsa qualità sopra la vasca da bagno erano rosse, il pavimento era rosso, la vasca stessa era rossa. C’era una quantità di sangue che ben presto fece crollare ulteriormente Sasha; precipitò nella follia di chi non crede a ciò che vede, così iniziò a toccare quel sangue e pian piano ne era pieno. Piangeva a terra, carponi. Un piano lento e sommesso. Non si era allenato molto per renderlo disperato come si conviene. Tuttavia era l’espressione della sua massima disperazione.

Alain e l’algerino da fuori sentivano le grida ed entrambi capirono che era successo qualcosa di terribile. Non fecero in tempo a trovare una motivazione che alle loro spalle era già in arrivo a sirene spiegate un auto della gendarmerie.

Alain fu subito chiaro: “io sono solo un cliente abituale, sono arrivato per ultimo, non c’entro nulla” venne rispedito a casa con un richiamo. In macchina rise di gusto. Perché proprio la sua puttana doveva morire e perché proprio Sasha ucciderla. Ora gli toccava trovare un'altra marie e questa cosa interruppe il suo ridacchiare.

L’algerino torchiato dagli agenti ammise di averla circuita, ingabbiata lui, diceva che peró  non avrebbe mai ucciso la sua miglior puttana. La gendarmerie concordò, non c’erano elementi che potessero portare l’algerino ad ucciderla. Venne mandato a processo per prostituzione e spaccio di droga e per lui si risolse così

Toccò a Sasha. sporco di sangue, taciturno , strano e soprattutto il primo ad arrivare. La gendarmerie era sicura fosse il colpevole. Lo strambo che si invaghisce della puttana e accecato dalla gelosia e dall’ossessione la uccide in una sera di follia. C’era un problema però; dov’era il corpo? Sasha non parlava. Non diceva nulla. Fissava il vuoto. Gesù. La gendarmerie lo tenne chiuso in uno stanzino per 48 ore ma nulla. Non diceva  dove cazzo fosse il corpo. Iniziò così il processo, non quello in tribunale, quello mediatico. “Il dissanguatore della drome arrestato non parla.” “Turco uccide donna ma fa sparire il cadavere, ora sotto indagine non risponde alle domande degli inquirenti.” Passarono mesi ma del corpo nemmeno l’ombra e così Sasha, in mancanza di prove e di parole incriminanti, venne rilasciato. Ad attenderlo all’uscita c’era una folla di gente immensa che lo riempì di immondizia, insulti e lo spintonò gridandogli assassino. Sasha salì sulla sua Renault scassata e senza parlare se ne andò

Marie intanto dipingeva ritratti fra le strade d’Aix-en-provence. Con le vene tagliate e il cuore a pezzi leggeva ogni giorno della distruzione dell’unico uomo che aveva davvero amato, solo che nulla si può amare più della propria libertà.

Così io persi di vista Gesù fra grappoli di vite.

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