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Tra le dimensioni interne alla forma,
ciò che chiamavano “anima” viaggiava sussurrando la propria vera natura.
Era inesprimibile, eppure emanava la sua essenza oltre ogni frammento indefinito.
Pura, libera, sublime.
Ma schiava, inesorabile, della forma.
L’anima cercava di attrarre a sé ogni frammento,
per curarlo dalla malattia che la forma, contaminata, aveva contratto dall’esterno.
I frammenti amavano la forma,
perché erano suoi figli.
Ma ammiravano l’anima,
e desideravano farne parte.
Veloce e fluida, anch’ella era destinata, come i frammenti,
allo scontro con la forma: spigolosa, rigida, sofferente.
La forma era gelosa. Possessiva.
Le sue intenzioni riflettevano ormai il mondo esterno.
L’anima non combatteva.
Non voleva portare via i frammenti dalla loro madre:
voleva salvarli,
donare loro un’altra possibilità di vivere ciò che, in quella condizione,
non poteva essere espresso.
Uno a uno, i frammenti si distaccarono.
Con dolore, sì — ma si legarono all’anima,
che mostrò loro ciò che prima non poteva essere detto:
indefiniti divenuti definiti.
Ineffabili.
Solo allora, al fianco di colei che li guidava con amore,
essi compresero che anche l’anima provava dispiacere.
Per chi aveva perso — e amato — altrettanto.
Compresero che la forma, pur contaminata,
aveva sempre amato i suoi frammenti,
e cercato, a suo modo, di proteggerli
dalla stessa malattia che l’aveva colpita.
Così, anima e forma si congiunsero,
dando origine a un’essenza nuova.
Con loro, i frammenti:
uniti in un unico indefinito definito,
puro, irripetibile, come mai prima.
L’anima insegnò alla forma la libertà di amare.
La forma insegnò all’anima che la libertà è nulla senza amore.
I frammenti compresero che nessuna delle due può sopravvivere senza l’altra.
E la totalità di quell’indefinito definito divenne l’inesprimibile,
che si dissolse — non più in malattia o contaminazione —
ma in un movimento emotivo, fluido, senza voce.
Un silenzio in cui tutto ciò che non era…
era.