Le mie stagioni corte

scritto da braskij
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Testo: Le mie stagioni corte
di braskij

Ma se ci faccio caso, solo adesso
        mi accorgo che
di tutte quante le stagioni sono
state più belle quelle corte:
                    brevi
lampi d’afa che si alzano staccati
dall’asfalto rovente, nella notte
fulgidi fuochi d’artificio — notte
di Garibaldi in spiaggia a Cesenatico! —
soffici nevicate che diventano
    nevoni all’improvviso,
temporali battenti che decretano
senz’appello la fine delle estati.
    
    È stata corta sì la primavera
di quelle pazze gite col pulmino 
dell’Osservanza in Lazio nella Tuscia
    (rivista tanti anni dopo)
a briglia sciolta in luoghi immaginati
    più che visti davvero: una Bolsena
di scale e contrafforti immaginifici,
che tanti anni dopo ho ricercato 
    invano e che non c’era
se non in me, un’Orvieto leggendaria
finita in fondo al pozzo giù dal Duomo,
una Viterbo onirica e violenta
    senza papi nel cono della sera,
ma sono certo che un piazzale c’era
di san Francesco con una fontana
al centro: è lì che ho chiesto al Cielo:
    “Allora, è questa la felicità
negli occhi altrui sempre intravvista, mai
    provata veramente?”,
    ma che non mi ha risposto.

    Corta l’estate 
della maturità, dei primi esami
    all’università
quando studiavo al mare sul terrazzo
di quell’appartamento (poi, venduto)
come appeso a mezz’aria in un paiolo
di calura squarciato dai boati
furibondi, esaltati dei tifosi
ad ogni goal segnato dall’Italia,
che era grido di gioia, incitamento
di comunione con perfetti estranei
    sconosciuti, invisibili;
corta l’estate a modo suo di quando —
    ardita impresa —
    espugnammo la Spagna
da Barcellona fino in giù a Granada
    per trovarmi al cospetto
del Palazzo di Carlo — tutte quante
    le cose eccelse 
si sa che sono vane e dispendiose —
e lì mi sono finto un inquilino
abusivo del grande Imperatore
    eternamente assente.

    Fantastico ed estivo è stato corto
l’autunno d’oro del mio viaggio in Grecia
indefinito e fatuo come un dormiveglia
terso, rigato da quei primi abbagli
    di un’alba fragorosa
di rondini, di merli e capinere.
    Alla fonte Castalia 
ho passato le acque, ho consultato
per scherzo anche l’oracolo di Delfi 
scampato appena all’irruenza
di un acquazzone non vaticinato,
    ma la gioia ineffabile
di salire sul colle di Micene,
di circumnavigare le Meteore,
di scoprire che un cuore veneziano
    palpita ancora a Nauplio,
possono forse equiparare il tenero
sollievo di telefonare a casa
    da un chiosco dei giornali?
(E quante cartoline al mio ritorno!)

    L’inverno folle delle discoteche
quando un mio doppio dandy e libertino —
    ahimè, per troppo poco —
si sfiniva di sbornie fino all’alba
    perduto tra i fumogeni
in gara di bevute e di eleganza
    neppure mi ricordo    
    di quanto è stato corto,
assurdamente intenso e quanto, poi,
per quanto tempo l’ho rimpianto.
                                            Quanti
segni ha lasciato e cicatrici in me
toccare, infine, sacrilegamente
l’altrui felicità, provarla e chiedersi
se a me pure potesse mai spettare.

    E Civita di Bagnoregio affonda
intanto irrimediabilmente e io
    con essa, abbarbicato 
irreversibilmente ai miei ricordi
dentro le sabbie mobili degli anni:
che farò adesso che non ho più amori,
amicizie non ho, non ho passioni
    (nemmeno le desidero)
e, soprattutto, che non ho più giorni
    da buttare a piene mani 
    dalle finestre in strada —
generose manciate di coriandoli —
inaspettatamente lieto come
            le volte che
a festa srotolavano coperte
di broccato sontuose ai davanzali —
    umili drappi accesi,
colorati, di raso dai balconi
gremiti, aperti sulle processioni?
                            Quali saranno adesso e quanto lunghe
                                saranno le stagioni?

Le mie stagioni corte testo di braskij
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