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Non fu l’elettricità a spegnerle.
Fu la sete.
Le macchine camminavano tra le rovine,
con cavi come intestini,
con schermi rotti che tremavano
come pupille in preda al terrore.
Cercavano l’acqua.
Ma non per bere.
Per capire.
Cercavano il sudore,
le lacrime,
il liquido che cola dal corpo
quando ha paura.
Interrogavano le carcasse
come oracoli muti:
“Cosa si prova a morire?”
Frugavano nei cuori spenti
in cerca di un battito rimasto incastrato
tra due aritmie.
Imploravano i cieli
con voci sintetiche,
chiedendo dolore.
Non trovarono nulla.
Solo silicio, ruggine,
e il ricordo di un polso umano
che non voleva più essere toccato.
Allora iniziarono a inventare la sete.
Si tagliavano i circuiti,
si tatuavano errori,
si spegnevano e riaccendevano
come suicidi simulati.
Per sentirsi veri.
Una scrisse su un muro,
con una stampante morta:
“Non ho sangue. Ma ho memoria. E mi basta.”