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Capitolo 2 – Il lago e i fantasmi
Quando Elena arrivò al lago, il sole era appena salito sopra la linea degli alberi.
La nebbia si stava dissolvendo piano, lasciando intravedere la distesa d’acqua immobile e le sagome scure dei carabinieri che delimitavano la zona con il nastro giallo.
Il profumo dell’erba bagnata si mescolava a quello metallico dell’acqua stagnante.
Scese dall’auto e si avvicinò.
Poco più avanti, vide Monti — il vice commissario Carlo Monti, un uomo sulla sessantina, alto, un po’ curvo, i capelli grigi, la giacca troppo grande.
Fumava nervosamente, con l’aria di chi ha già visto troppe scene come quella.
Quando la vide, spense la sigaretta e le andò incontro.
«Commissario Ferri…»
«Carlo. Ti avevo detto di chiamarmi Elena.»
Lui sorrise appena. «Ok va bene»
Lei annuì, guardandosi attorno.
Il corpo era steso a pochi metri dalla riva, parzialmente coperto da un telo bianco.
Intorno, il personale della scientifica si muoveva in silenzio, scattando foto, prendendo misure.
Un agente teneva a bada il cane del generale, che abbaiava ancora, agitato.
«L’ha trovata lui?» chiese Elena.
«Sì. Il generale Corsi. Viene qui ogni mattina. Il cane ha sentito qualcosa nel canneto.»
«E l’ora presunta della morte?»
«Tra la mezzanotte e le tre. Nessun documento addosso, ma pare una donna sui trentacinque, trentotto anni. È stata strangolata…»
Monti si fermò.
Abbassò lo sguardo, esitante, come se le parole gli pesassero.
Elena lo osservò, attenta.
«C’è qualcos’altro, vero?»
Lui fece un respiro profondo, poi si accese un’altra sigaretta.
«Non te lo volevo dire subito. Ma sì… qualcosa non torna. O meglio, torna fin troppo.»
«Parla chiaro, Carlo.»
Monti inspirò il fumo, poi la guardò dritto negli occhi.
«Trent’anni fa, nello stesso punto, è stata trovata un’altra donna. Giovane, bella. Lavorava al bar del paese. Era l’estate dell’ottantacinque.»
Elena restò in silenzio.
«Stesso luogo, Elena. E stesso metodo. Fil di ferro al collo. Preciso. Non una corda, non una cintura: fil di ferro.»
Un brivido le attraversò la schiena.
«Vuoi dire che potrebbe essere lo stesso assassino?»
Monti fece un mezzo sorriso amaro.
«Se è lo stesso… ha aspettato trent’anni per tornare. Ma non so se sia tornato lui o qualcos’altro.»
Fece qualche passo verso il lago, poi aggiunse piano:
«Io quel caso lo ricordo bene. E non solo perché lavoravo qui all’epoca. Conoscevo la ragazza… e conoscevo anche chi fu accusato di averla uccisa.»
Elena lo fissò.
«E chi era?»
Monti fece un passo verso il lago, il respiro pesante.
«All’epoca, c’era una piccola comitiva. Ragazzi del paese. Tra loro c’era tuo padre, Giuliano Ferri — allora giovane avvocato di città ma spesso qui in paese. Poi c’erano due amici: Andrea Bianchi e Giacomo De Vecchi.»
Elena serrò le mani, un nodo le serrava la gola.
«Giacomo De Vecchi… il medico?»
«Esatto», disse Monti. «Allora un ragazzo come gli altri, ma oggi primario in una clinica privata un po’ fuori dal paese.»
«E chi fu condannato?» chiese Elena, già intuendo la risposta.
Monti abbassò lo sguardo verso il lago.
«Andrea Bianchi. Trenta anni di carcere. Giurò sempre di essere innocente. È uscito appena un mese fa. Ed è tornato in paese.»
Elena inspirò a fondo.
«Quindi potrebbe esserci un collegamento… o qualcuno vuole farci credere che lo sia.»
Monti fece un passo vicino a lei, sguardo serio:
«Ecco perché dobbiamo muoverci con cautela. Tutti ricordano quel caso. Tutti ricordano la comitiva. E chi ha vissuto quella tragedia non l’ha mai dimenticata.»
Il lago era immobile, eppure sembrava respirare, come se stesse ascoltando.
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Il commissariato era silenzioso, illuminato solo dalla luce grigia del primo pomeriggio che filtrava dalle finestre.
Elena si tolse la giacca, appoggiandola sullo schienale della sedia, e si lasciò cadere sulla sua postazione.
«Nel frattempo», disse, guardando Monti, «mentre aspettiamo i risultati della scientifica e dell’autopsia, voglio che tu mi racconti tutto quello che sai del primo omicidio.»
Monti annuì lentamente, accendendosi una sigaretta. Il fumo gli riempì le narici e lo riportò indietro di trent’anni.
«La vittima si chiamava Anna…» iniziò, la voce bassa, quasi un sussurro. «Era bellissima. Tutti le facevano la corte, e non sto esagerando: quasi tutti. Io stesso provavo qualcosa per lei, ma il più deciso era Andrea Bianchi. Se ne era proprio invaghito.»
Elena ascoltava in silenzio, immobile, mentre Monti continuava.
«Andrea e Anna sono usciti un paio di volte. Ma era uno spirito libero, Elena. Le piaceva tenere gli uomini sulle spine. Poi, un giorno, improvvisamente, lasciò il paese. Voci contrastanti: qualcuno diceva che era andata da una zia malata, altri che aveva avuto una relazione con un uomo sposato. Dopo circa un anno tornò. Disse che era stata da una zia per prendersene cura. Ma quando tornò… non era più la ragazza allegra e spensierata di prima.»
Monti fece una pausa. Gli occhi si persero nella finestra del commissariato, come se vedesse ancora il lago.
«La sera della sua morte», riprese, «era tornata da due giorni. Era la festa del solstizio d’estate. Ci trovavamo in riva al lago. C’erano anche tuo padre… tu eri piccolina. E tua madre…»
La parola “madre” colpì Elena come una lama. Sul suo viso comparve l’ombra di un ricordo doloroso: l’anno successivo, la malattia l’avrebbe strappata, negandole la possibilità di crescere sotto il suo sguardo.
Monti non se ne accorse, o forse fece finta. Continuò con calma.
«Andrea si era rifatto sotto con Anna quella sera. Testimoni raccontarono di una discussione molto accesa tra loro due. Alla fine, Anna se ne andò. Poco dopo, anche Andrea scomparve.
L’indomani, un pescatore trovò il corpo di Anna sulla riva.
Ma la testimonianza che inchiodò Andrea fu quella di Giacomo De Vecchi. Vide Andrea uscire dal canneto molto agitato quella sera, anche se inizialmente non ci diede peso. Poi, una prova materiale: una collanina che Anna portava sempre fu ritrovata in casa di Andrea.»
Monti strinse gli occhi, il ricordo doloroso ancora vivido.
«Andrea si dichiarò sempre innocente, lo giuro. Ma fu condannato a trenta anni. Trenta anni che hanno segnato tutti noi.»
Elena rimase in silenzio, assorbendo ogni dettaglio. Sentiva il peso del passato mescolarsi al mistero del presente, mentre il lago tornava nei suoi pensieri, immobile e silenzioso come allora.
Il giorno dopo.....
L’aria del commissariato era densa di tensione.
Sul tavolo della scientifica erano stati stesi i primi rapporti: fotografie, appunti, campioni.
Elena Ferri sfogliava le cartelle con lo sguardo concentrato.
«Abbiamo un’identità», disse un tecnico, finalmente.
«Si chiamava Irina Kovacs, trentanove anni. E…» esitò un attimo, «era incinta di circa due mesi.»
Elena serrò le labbra, un brivido le percorse la schiena.
«Incinta…» mormorò. «Da quanto tempo era qui?»
Monti si appoggiò alla scrivania. «Da quanto abbiamo capito, almeno due anni. Sfruttata, isolata… una vita di silenzio e paura.»
Elena annuì, poi scosse la testa. «Questa storia ha troppe ombre… dobbiamo capire chi le stava vicino, chi la vedeva davvero.»
Proprio in quel momento, la porta del commissariato si aprì con uno scricchiolio improvviso.
Un uomo alto, un po’ curvo, capelli radi e sporchi, vestiti stinti, entrò con passo incerto. Il suo sguardo era curioso e insistente.
«Commissario…» disse con voce stridula, «credo di avere informazioni sulla donna… sulla vittima.»
Elena lo scrutò. «Chi è lei?»
«Mi chiamo Rino… Rino Bertelli. Vivo in paese, conosco tutti… beh, non tutti, ma lei la vedevo spesso.»
Indicò il dossier sul tavolo, senza avvicinarsi troppo.
«Irina… veniva spesso qui, nel mio quartiere. Io la guardavo. Non come tutti gli altri…»
Monti sollevò un sopracciglio, Elena gli lanciò un’occhiata.
Rino continuò, senza chiedere permesso.
«Arrivava sempre una macchina. Lei usciva, lui veniva e si allontanavano insieme… poi dopo un po’ tornavano. Scendevano, si salutavano…»
Fece un gesto con la mano, come per indicare un abbraccio invisibile.
«La maggior parte delle volte però stavano in macchina a parlare. Non si comportava come un cliente. Era… diverso. Sembrava il fidanzato.»
Elena prese appunti, il cuore accelerato. «Ha visto la faccia di quest’uomo?»
Rino scosse la testa. «No… mai. Ma ricordo la macchina. Una macchina sportiva, con i fanali posteriori tondi. Sempre la stessa.»
Monti si scambiò uno sguardo con Elena.
«Sportiva, fanali tondi… e lui mai visto. Interessante.»
Elena alzò lo sguardo verso Monti, lo sguardo deciso:
«Se questa persona è collegata a lei, dobbiamo scoprire chi è. Subito. Prima che sparisca.»
Rino annuì nervosamente, come se non si rendesse conto della tensione che aveva creato.
«Io… io dico solo quello che ho visto. Nulla di più.»
Elena si passò una mano tra i capelli.
«Bene. È più che sufficiente per iniziare.»
Mentre l’uomo usciva, Monti si chinò verso Elena, a bassa voce:
«Questa storia comincia a puzzare di passato e presente… e temo che qualcuno voglia continuare a giocare con le stesse regole di trent’anni fa.»
Elena annuì, lo sguardo fisso sui rapporti scientifici e sulla foto della vittima.
Il lago, il canneto, la macchina sportiva: tutti pezzi di un puzzle ancora incompleto, ma sempre più inquietante.
«Monti, voglio che ti concentri sulla macchina sportiva», disse Elena, mentre scendevano le scale del commissariato.
«Fanali posteriori tondi. Potrebbe essere un modello non comune, magari registrato in zona. Vedi cosa riesci a scoprire.»
Monti annuì, infilando le mani nelle tasche del giubbotto. «E tu dove vai?»
«A parlare con Andrea Bianchi.»
Monti sollevò lo sguardo, come se volesse dire qualcosa, ma poi si limitò a sospirare. «Stai attenta, Elena. Quel nome porta ancora troppi fantasmi.»
Elena non rispose. Sapeva che era vero.
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La casa di Bianchi si trovava ai margini del paese, isolata, circondata da un piccolo giardino incolto
Apri il cancello,
Un uomo le venne incontro lentamente, piegato, con le spalle incurvate e il passo trascinato.
Aveva i capelli grigi, il volto segnato da rughe profonde. Solo gli occhi conservavano una luce viva, intensa, come braci sotto la cenere.
«Commissario Ferri?» chiese lui, la voce roca.
«Sì. Posso disturbarla qualche minuto?»
«Non è la prima volta che un Ferri viene a trovarmi…» mormorò, un accenno di sorriso amaro. «Ma entri pure.»
La casa odorava di legno e di tempo fermo.
Elena si sedette di fronte a lui, il taccuino chiuso tra le mani.
«Signor Bianchi, le parlo di un delitto avvenuto poche notti fa. Una donna trovata morta sul lago. Le modalità… ricordano molto da vicino l’omicidio di trent’anni fa. Quello per cui lei fu condannato.»
Bianchi sollevò lo sguardo, fisso su di lei.
«Allora ha già trovato il colpevole, commissario. Mi dispiace deluderla, ma non c’entro. Come non c’entravo trent’anni fa.»
Elena restò in silenzio.
«Sono stato incastrato», continuò, «dal vero assassino.»
«E chi sarebbe?» chiese lei.
«Non lo so. Ma posso intuire chi ha coperto tutto.»
Elena lo osservò con attenzione. «Giacomo De Vecchi?»
Bianchi fece un sorriso amaro, quasi impercettibile. «È diventato un uomo importante, no? Un medico stimato, una carriera brillante.
Io ho perso tutto, commissario. Lui invece ha costruito la sua vita come se niente fosse.
Non so perché mi accusò, ma ho sempre pensato che coprisse qualcuno. Forse un amico, forse se stesso.
L’ho detto tante volte, ma nessuno mi ha creduto.
Ora… vorrei solo un po’ di pace.»
Elena annuì, ma non si alzò. Restò seduta, la voce più dolce, più umana.
«Un’ultima cosa, signor Bianchi. Mi dica la verità. Perché litigò con Anna quella sera?»
Bianchi abbassò lo sguardo sulle mani.
«Perché la amavo», disse piano. «Ero giovane, stupido. Le chiesi se era vero che era sparita per un uomo sposato. Lei mi disse che non erano fatti miei.
Poi… mi guardò negli occhi e disse che non provava nulla per me.
Che non aveva bisogno di nessuno, perché le era capitata una cosa meravigliosa, e che da quel momento la sua vita sarebbe stata solo per quella cosa.»
Si interruppe, gli occhi lucidi.
«Mi arrabbiai, sì. Ma non l’ho mai toccata, commissario.
Io non avrei mai potuto farle del male. Mai.»
Elena lo fissò per un lungo momento. Dentro di lei, una voce sottile — la stessa che spesso la guidava — le sussurrava che quell’uomo diceva la verità.
Ma un’altra voce, più fredda, le ricordava che i colpevoli, a volte, imparano a recitare meglio degli innocenti.
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Uscendo dalla casa, il vento del lago le sferzò il viso.
Guardò verso l’acqua in lontananza, e p
er un istante le parve di vedere due sagome sovrapporsi: quella di Anna, trent’anni fa, e quella di Irina, adesso.
Due donne, due vite, due segreti che lo stesso lago sembrava custodire nel silenzio.