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LA STRANA MOGLIE DEL DOTTORE
A piazza Dante tra i lampadari blu della metro Toledo e il vociare dei Quartieri Spagnoli, abitava al civico quarantotto un dottore famoso per i rimedi miracolosi. Si chiamava Achille Siringa, alto e liscio come una fiala, col camice sempre immacolato e un sorriso da cioccolatino ripieno. La sua clinica ambulante spuntava dove girava più gente: un gazebo bianco, una fila di bottiglie coloratissime e un tamburo a pedale che batteva da solo. Quando il tamburo cominciava, arrivava lei: la moglie del dottore.
La chiamavano Donna Carolina la cantante , perché cantava in rime pure quando chiedeva il resto al fruttivendolo. Aveva una borsetta d'argento che suonava a tempo, un ombrellino di pizzo che faceva ombra anche alla faccia della luna, e una voce dolce che ti scivolava addosso come crema pasticciera. Bastava che alzasse il dito e piazze e vicoli incominciavano a cantare , persino la voce dei gabbiani del Molo Beverello divenivano cosi melodiose da sembrare voci bianche del san Carlo .
Signori e signore , diceva, "il dottore qui presente , vi guarisce tutto a modici prezzi : mal di pancia, mal di scuola, mal di lavoro. Tenimmo sciroppi che profumano di nuvole e pasticche senza colpa." Poi, senza preavviso, partiva una base prodigiosa dal tamburo: tum-tum, tum-tum, e Donna Carolina iniziava a cantare.
"Venite, venite, sentite questa voce ,
'na goccia d'oro, 'nu tocco 'e carisma.
Se fai 'na smorfia, ‘l’anima te trema?
Bevi 'stu sciroppo e passa 'ogni pena.”
Non aver paura medici e medicine
sono un miracolo dei tempi moderni.
Ogni cosa guariamo , ogni cosa operiamo.
Ogni morto diventa vivo.
Ed ogni malato un sano portatore.
Venite , venite, sentite questa voce
è la voce della moglie del dottore.
Il ritornello sembrava una carezza e l'aria si addolciva; perfino i semafori tardavano un attimo a diventare rossi per sentire com'era bella la rima. Le bottiglie ballavano sul banco, riflettendo facce curiose, soprattutto di bambini. E qui cominciava il fatto strano: chi beveva “Loquacillina Lumaca”, uno sciroppo inventato dal dottore siringa che prometteva guarigione miracolose , per chi l’avrebbe bevuto due giorni dopo parlava meno. Sempre meno. Come se le vocali scivolassero da qualche parte in gola e non tornassero più a galla.
In città tutto oramai lo sapevano delle meraviglie che era capace il dottore siringa , ma a Napoli certe cose si sopportano come l'umidità nei bassi: ci fai l'abitudine, ci stendi i panni, e avanti. Fino a quando arrivò Marilù.
Marilù era una ragazzina di santa Lucia con gli occhi color caffè ristretto e le ginocchia sempre un po' sbucciate. Vendeva cartoline ai turisti, ma la sua vera specialità era il rap : le dita le facevano da tamburello, il marciapiede era cassa e rullante, e la bocca, mamma mia, sparava rime come stecche di liquirizia. Aveva capito che, da quando la clinica del dottore era spuntata, certi bambini non sapevano più fare le pernacchie—che a Napoli è come non saper respirare.
“Vuje arrubbate 'e voci,” disse un pomeriggio, presentandosi al gazebo. “E io voglio tutte le voci , che vi siete rubato .”
Il dottore sorrise come sorridono alcuni santini dentro le chiese . "Bambina, non dire sciocchezze. Noi curiamo l’ipocondria . Troppa parola fanno male."
Donna Carolina si piegò verso di lei, con le ciglia lunghe come parentesi. “Piccerè, tu che sai rappare bene, fai una rima pure per noi.”
La base partì da sola. Tum… tum-tum… tum. La borsetta d’argento tintinnò come cucchiaini nelle tazzine.
“Ritornello,” sussurrò Donna Carolina , e fu rap.
“Gente venite, jamme a cantà,
‘na goccia ‘e sciroppo e scompare la voce
‘E guaie nascono quando le voci riposano,
quanto non si può più dire cosa si pensa ?
gente , gente leggera e felice venite a cantare la bona novella.
La gente batté le mani, e senza capire perché, un bambino appoggiò le labbra a un cucchiaino: un sorso, due… Poi un altro. E un altro ancora. Marilù vide la sua bocca farsi piccola piccola, come una porta chiusa. La borsetta di Donna Carolina si gonfiò appena, come se avesse ingoiato un palloncino di elio.
“Allora è vero,” pensò Marilù. “Lei mette le voci nella borsa.”
Ma che dici ragazzina . Vuoi essere denunciata per istigazione a delinquere.
Cosi nei giorni successivi Marilù seguì la coppia per giorni interi : li vide comparire al mercato della Pignasecca, dove le alici applaudivano sulle bancarelle, e in via Duomo, dove il sole faceva candele di cera sui balconi. Ovunque andassero, un bambino rideva in silenzio, come se qualcuno gli avesse spento la risata sulla punta della lingua. Ovunque andassero, la borsetta di donna Carolina suonava più piena.
Ma una domenica ci fu uno spettacolo grande in Piazza del Plebiscito: “La Notte delle Guarigioni”. C’era una pedana lucida, un neon a forma di stetoscopio e un microfono dorato. Il dottore indossava un camice che luccicava come carta stagnola. Donna Carolina , con un cappello a fascia larga e due gocce di limone al posto degli orecchini, cavalcava la folla con lo sguardo. Mariù si fece largo fino al bordo del palco.
“Stasera,” annunciò Donna Carolina , “vi regalo una cura nuova: Silenziolina Serena! Chi ne beve una goccia non litiga più, non urla più, non sbaglia più. Questa città diventerà a breve , senza più errori !”
Cosi partì la base. Non una base qualsiasi: questa scendeva dai cornicioni, saliva dai tombini, si infilava nei corridoi della metro come un gatto. Tum tum-tum, tum tum-tum. Le statue e i cavalli, di piazza del plebiscito per un istante, parvero tendere l’orecchio.
“Fate silenzio,” cantò lei, “e la vita ve dice brava:
senza rumore, ogni cosa è più brava.”
Marilù fece un passo. Si avvicinò al microfono e, senza chiedere permesso, lo strappò alla scenografia con la stessa grazia di chi strappa una margherita.
“Mo’ parlo io.” E diede il via al suo rap, secco e pieno di curve come i vicoli.
“Sirene e mare, voce ‘della città,
senza ‘e voci chi simmo noi ’?
‘E panni stesi sunn’ bandiere,
‘e guaie si cantano diventano piume leggere.
Tu che fai rime pe’ fa’ denari
metti ‘e voci dint’ a ‘sta borsa ‘questa è la verità?
Te ‘o giuro ‘ncopp’ ‘all’anima dello ciuccio
e sulle scale di san martino,
la verità canterà… e romperà ogni catene.”
La gente provò a fuggire. Poi sussurrò. Qualcuno si alzò, qualcuno tremò. Donna Carolina allungò la mano e scattò un gesto sottile, come se volesse acchiappare la rima e piegarla. Il tamburo obbedì, rallentando. Ma Marilù non era sola. Dai vicoli arrivarono altre voci, piccole, arrugginite, testarde.
Un bambino con le lentiggini fece da cassa con la bocca. Una ragazzina con i capelli a cavatappi batté il tempo sui basoli. I balconi scesero di un palmo per ascoltare.
“Ritornello nostro,” urlò Marilù, e fu tempesta:
"Nun c’è stammo zitte, jamme a sfrelucchiare,
'a lingua è 'nu fiume, nun se po' fermà.
'E parole nostre fann' luce ‘dentro la sera,
chi le mette 'n gabbia perde a primmavera.”
La verità è una rima libera e chi la rincorra
diventa libero da ogni male
Donna Carolina si irrigidì. Il suo ombrellino scricchiolò. “Carini,” disse, “ma io ho studiato.” E tirò fuori dalla borsa una bottiglietta blu, “Silenziolina Serena”, questo sciroppo è uno scioglilingua , chi lo beve campa cento anni . Fatevi avanti e respirate. Poi la stappò e un profumo di acquario e zucchero filato invase l'aria. Le parole attorno a lei si accovacciarono, mezze addormentate.
Allora Marilù provò l'ultima cosa, l'arma più antica: il nome vero. A Napoli, se trovi il nome vero di qualcuno, i muri stessi cambiano colore. Guardò Donna Carolina dritta negli occhi.
“Tu non sei Carolina la cantante ”, disse piano. "Tu sei Donna Catenella. Strega allo servizio del dottor Siringa . Fai catene con la voce. E infondi paura nel silenzio degli innocenti vero ?
La base zoppicò. L'ombrellino fece un rumore di bicchiere che si spacca. La borsa d'argento tremò e, dalla serratura, uscì una sillaba. Poi un'altra. E un'altra ancora. Le voci intrappolate cominciarono a sciogliersi come zucchero nel caffè bollente.
“Gente , gridò Marilù. “Ritornello!”
E tutta la piazza cantò:
"Scassammo 'e catene con 'o rap d' 'a verità,
'a voce della verità te salva, nun te ‘rende muto.
Se 'o core è stonato, impar' a sunà,
'a cura è cantare, senza rimanere più' zittì!"
Le bottiglie si incrinarono; il tamburo cambiò padrone e seguì il tempo dei bambini. La “Silenziolina Serena” si svuotò da sola, ma invece di pace , uscì una risata lunga, vecchia, liberata: era la risata di una maestra, di un barbiere, di un fattorino, di un nonno coi baffi; tutte le risate che Donna Catenella aveva imprigionato negli anni. L'aria profumò di sale e mandarino.
Il dottore, Achille Siringa, proverà ad abbracciare la moglie. "Amore, torniamo alla clinica. Rivolto alla folla . Signori e signore veniteci a trovare faremo super sconti!" Ma le rime non obbediscono ai saldi. L'ombrellino si chiuse di scatto come una conchiglia, e dentro non ci fu più la donna: solo un filo di musica, sottile, che rotolò fuori e si infilò nel tamburo. Da quella notte il tamburo non suonò più a comando: suonava solo quando qualcuno cercava di vendere una cura che prometteva di toglierti la voce insieme al dolore.
Quanto al dottore, perse il sorriso da cioccolatino. Aprì un chiosco nuovo, senza luci vistose: “Poesie e Parole”. Regalava quaderni bianchi e tamburelli ai bambini. Ogni tanto provava a parlare, ma dalla gola gli uscivano soltanto ritornelli, come questi:
"Nun vendo silenzi, vendo libertà,
scrivi 'nu verso e passa 'a città.
Si tiene 'o malincuore, vieni a suonà,
'o core se 'nsegna... e nun sbaglia cchiù."
Marilù ritornò a santa Lucia non più a vendere cartoline , ma adesso disegnava lei i panorami: Napoli con i bassi che cantano, le ringhiere piene di rime, e il Vesuvio che fa da metronomo alle giornate ventose. Quando qualcuno proponeva “ una nuova canzone ”, lei batteva due colpi sul marciapiede e il tamburo da qualche parte le rispondeva, come un amico che non ti lascia mai.
Perché a Napoli le parole sono come i topi : se li fai giocare, passeggiano insieme ai gatti come buoni amici . E se provi a metterle al guinzaglio, ti ridono in faccia al suono di rima baciata .