Giulia e Il Mistero di Via delle Ombre Cieche

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Testo: Giulia e Il Mistero di Via delle Ombre Cieche
di andreanesos

I

Le braccia ambrate di Giulia sporgevano dalla finestra del secondo e ultimo piano del palazzo dove abitava. Era mattino presto e un quadro di luce le si accese sul viso, scagliato dal sole che piano piano spuntava lontano, oltre i tetti del borgo storico dove abitava. L’aria fresca della brezza punteggiava la pelle scoperta dei polsi, arrossava la punta del naso, mentre gli occhi solcavano lo spicchio di cielo appena sorto.

Sotto, la piazza era ancora assonnata, i tavoli del bar uno sopra l’altro, l’edicola con la serranda a metà, i quotidiani ancora impacchettati.

Tornò dentro, si preparò in fretta, la t-shirt da barista già indossata sotto un giacchetto estivo, un paio di jeans neri e scarpe da ginnastica. Si abbracciò un po’ il suo piccolo cane Birbo. “Mi raccomando fai il bravo. Ci vediamo dopo pranzo”.

Chiuse dietro di sé il portone del palazzo e s’incamminò verso la caffetteria dove avrebbe lavorato, distante venti minuti a piedi da dove abitava. Con le mani teneva una fascia dello zaino di tela gialla.

Superata la piazza imboccò Via delle Ombre Cieche. Stretta fra due file vicine di vecchi palazzi, dall’intonaco marcio qua e là e le finestre chiuse, l’aria era buia e umida, quasi zuppa: il sole non toccava quasi mai nessuna delle due facciate della via, lasciando ampie ombre immobili coprire ogni pietra. I ciottoli scuri e scivolosi s’inerpicavano sulla strada che curvava sempre un po’ più in là, non permettendo, per un bel tratto, di scorgere via d’uscita. Il silenzio era turbato solo dal vento estivo che alzava i panni dimenticati ad asciugare dalla sera prima.

Giulia camminava a passi lenti, ogni tanto alzando con un colpetto di spalla il bracciolo dello zaino scivolato un po’ giù. Era cullata dal pensiero del pomeriggio, quando sarebbe andata dopo il lavoro al mercato del sabato e fra qualche pantalone corto e dei cappelli a tesa larga avrebbe scattato qualche foto con la sua istantanea fra la folla del mercato, insieme al suo cane Birbo, fra gli schiamazzi delle bancarelle e i profumi dei formaggi e dei lupini.

All’improvviso sentì da un punto davanti a lei, dietro la curva della stradina, dei guaiti strazianti, che sembravano essere quelli di un cane: alti, acuti, che la gelarono sul posto. Si strinse d’impulso un braccio all’altro. Poi, subito dopo, sentì le urla terrorizzate di una voce femminile confuse fra ringhi feroci, latrati, cose che sbattono, che si frantumano sul pavimento. Poi il silenzio della strada. Giulia si appoggiò su una facciata della via per un tempo per lei vago.

Quando la mente si calmò un po’, proseguì la camminata con gli occhi spalancati. La strada rimaneva ancora deserta, nessuno era uscito fuori, nessuno si era affacciato alle finestre. Si guardò intorno per vedere se qualcosa gli facesse capire dove fosse avvenuto quello che aveva solo sentito, ma la via era, come sempre, come immobile. Camminò ancora.

II

Dall’orologio, si accorse che era passata già mezz’ora da quando era uscita di casa. Avrebbe fatto tardi al lavoro. Si girò intorno per capire più o meno in che punto della strada fosse. “Ecco, lì c’è l’insegna scolorita del negozio di scarpe che ha chiuso” pensò. “Sì, quel vecchio portone di legno verde, me lo ricordo. Manca poco”.

Rasente agli archi murati, ai lisci scalini che portavano alle porte degli ingressi e alle grondaie, un cane di grossa taglia camminava verso la fine della via, con lo sguardo puntato sul selciato. Giulia s’accorse che la parte sotto delle zampe era di color rosso acceso: sembrava sangue. Le impronte sule pietre umide scolorivano a mano a mano. Accelerò il passo e rincorse il cane.

La Via delle Ombre Cieche terminò aprendosi su un piccolo spiazzo dove c’era la fontana chiamata “Il Pesce di cuori”. Il cane svoltò scendendo una scalinata sotto un passaggio arcuato.

Era un San Bernardo dal pelo bianco a chiazze scure, grosso, dagli occhi buoni e un’orecchio piegato. Al collo aveva quella che sembrava una borsa frigo azzurra. Gli scalini si posarono sulla piazza del mercato che era già piena di gente. Giulia si fermò. “Come fa il mercato ad essere già pieno di gente?”, si chiese mentre di corsa guardava l’orologio. “Porca miseria, sono in ritardo di un’ora!” Il cane san Bernardo si inoltrò fra la folla del mercato e Giulia lo perse di vista.

III

Il campanello della porta della caffetteria dove lavorava Giulia squillò più forte del solito, tintinnando in levare sul ritmo latino della bossa nova che dalle casse vicino al frigo scivolava sui tavoli di legno dove un paio di coppie si erano appena sedute. “Scusa Marco sono in ritardissimo”, disse Giulia mentre correva, scansando un paio di clienti in attesa, aggirando il bancone, per poi entrare nella porta sul retro, a cambiarsi.

Rientrò con indosso un grembiule color caffè, come i suoi capelli, questi legati dietro con un fermaglio di legno bianco. Marco, barista anche lui, di qualche anno più grande di Giulia, preparava un doppio espresso macchiato davanti la macchina già immersa nel vapore degli steamer e macchiata di polvere di caffè. Alle spalle un signore abituale attendeva alla cassa.

“Che è successo Giulia, tutto bene?” chiese lui, mentre lei serviva il prossimo cliente.

“Mi dispiace per il ritardo, c’era gente?” gli rispose lei.

“No, sono tutti al mercato a quest’ora, tranquilla.”

“Scusami, poi parlerò con Cristina, gli dirò del ritardo. Ma mi è successa una cosa che mi ha spaventato a morte. Non mi sono resa conto… chissà quanto sono rimasta dopo che ho sentito…”

“Calma, che è successo?” disse Marco, dopo aver ringraziato il cliente appena finito di servire.

“Stavo venendo qui e sulla strada vicino casa mia ho sentito delle urla che venivano da un’appartamento e rumori di cose rotte e un cane che abbaiava e ringhiava. Non sapevo cosa fare, però non c’era niente e nessuno è uscito. Forse ho ingigantito la cosa nella mia testa per l’impressione che mi ha fatto. Non lo so. Forse era solo un litigio. Ma sono state urla assurde. E’ meglio se chiamo i carabinieri.”

Giulia tornò dietro il bancone. “Mi hanno detto che non è la prima volta che ricevono segnalazioni da quella via. Stanno andando a controllare.”

“Ah, guarda” disse Marco, “fuori a fumare c’è Gigi che abitava da quelle parti. Chiedi a lui, magari sa qualcosa.”

“E’ la signora Spencer, sicuro” disse Gigi mentre si riparava dal sole gli occhi dalle folte sopracciglia grigie.

“La conoscete?”, chiese Giulia.

“Ogni tanto dà di matto. E’ famosa, dicono che da giovane facesse la giornalista.”

“Perché pensate sia lei?.”

“In quella via ci abita solo lei.”

“Solo lei?”

“Lei e Augusto, Ceccotti, parecchio più verso la piazza. E’ che sono case vecchie, senza riscaldamento e sempre umide, non ci batte mai il sole. Le affittano solo ad agosto. Quella via è praticamente deserta il resto dell’anno.”

“Ma è sicuro lasciarla da sola?

“Non vuole vedere nessuno. Si è chiusa in casa anni fa. Il cane non fa avvicinare nessuno alla porta. Con un morso ti stacca un braccio quello.”

“Non compra da mangiare, non esce?”

“Mah. So che ha un’amica di un paese vicino che gli portava la spesa ogni tanto e il cane gli fa qualche commissione.”

“Il cane!?”

“Si. Mette i soldi e la lista nella borsa e fa il giro a prendere la roba.”

“Mi sta prendendo in giro vero?! Ma sa se la borsa è tipo una di quelle squadrate che tengono freddo?”

“Si. Lo vedo ogni tanto, soprattutto il sabato quando c’è il mercato. Non mi ci avvicino che è una bestia cattiva. Poi ho paura dei cani. E’ un San Bernardo enorme comunque.”

IV

Finito il turno di lavoro, Giulia tornò a casa. Il monolocale la accolse in silenzio e immobile, perturbato lievemente dal ronzio elettrico del frigo. Si sfilò le scarpe sul tappeto, buttò lo zaino, raccolse Birbo che le saltellava davanti e si lanciò sul letto a misura matrimoniale che occupava quasi tutto l’appartamento.

Tra le lenzuola ingarbugliate spuntava una fotocamera a pellicola istantanea e un libro tascabile dalla copertina bianca. Si guardò qualche minuto intorno, lietamente pensierosa, lo sguardo assonnato, il letto rivolto verso la finestra, le tende chiare, appena trasparenti, ferme. L’intonaco delle pareti dalle sfumature sbiadite del bianco e gli angoli del soffitto rotondi permettevano ai suoi occhi di scivolare fra le pareti, di non fissarsi mai in un punto preciso.

Al suo lato destro una cassettiera insolitamente snella e alta, stipata dall’angolo della parete fino alla spalliera del letto, le faceva da armadio. All’altro lato del letto una sedia di legno naturale dalla spalliera di vimini, con un cerchio zen disegnato sopra il sedile era dove di solito sonnecchiava Birbo. Di fianco, c’era una piccola cucina vicino alla porta d’ingresso e a quella del bagno. L’aveva preso in affitto da Cristina, la signora proprietaria della caffetteria dove lavorava, quando era arrivata in paese quattro mesi prima. L’aveva sistemato alla bell’e meglio parecchi anni prima come alcova per le sue scappatelle da “giovine”, come diceva lei.

Giulia, si alzò, spalancò la finestra e si riscaldò un piatto di risotto al ragù, il suo preferito, preparato e messo in frigo il giorno prima. Si sistemò con uno sgabello alto come quelli da bar, il piatto poggiato sul davanzale che era, di fatto, il suo tavolo.

L’aria calda dell’estate sembrava gonfiare la stanza e quasi insaporiva il risotto con il suo profumo di salsedine portato dal mare. Un doppio bip di un messaggio accese lo schermo del telefonino poggiato sul davanzale. “Per favore rispondi” diceva il popup. Si girò verso fuori appena lo lesse e la fronte le si corrucciò.

Lasciò spegnere lo schermo senza nemmeno toccarlo. Lo stomaco gli si chiuse. Sentì la mente accelerare e riempirsi di facce sdegnate. Voleva uscire per andare al mercato che tanto amava ma una forza che lei conosceva bene stava salendo da vie buie e cieche della sua mente. Si sdraiò sul letto. Birbo si svegliò dal sonnellino e incominciò ad abbaiare. Le se accucciò sul petto guaendo piano.

Nella sua mente il futuro stava come sparendo. Il passato erano solo attimi dolorosi. Il presente soffocato. Dopo un tempo indefinito squillò il telefonino, un numero sconosciuto.

“Pronto signorina?”

“Sì?”

“Sono il carabiniere Pasquali. La volevo solo informare che la segnalazione che ci ha fatto stamattina non è niente di cui preoccuparsi.

“Ma cos’era successo?”

“Non potrei dirle niente signorina ma posso assicurarla che la signora sta bene. L’abbiamo sentita al telefono subito dopo che ci ha chiamato.”

“Al telefono? Ma non andate a vederla?”

“Signorina, può stare tranquilla. Siamo in contatto tutte le settimane con la signora di Via delle Ombre cieche ed è visitata regolarmente da assistenti sanitari. Tenga a mente la privacy dei cittadini oltre che alla loro sicurezza. Ci richiami se è necessario. La saluto.”

La telefonata l’aveva lasciata insoddisfatta ma almeno aveva avuto il pregio di distrarla. Colse il momento al volo ed uscì.

V

Il sabato era speciale perché il mercato durava tutto il giorno fino al tardo pomeriggio. Era come una festa. Era piena di persone. Venivano anche dai paesi vicini. La piazza circolare aveva suggerito al comune, in accordo con i commercianti, di allestire le bancarelle a cerchi concentrici.

Entrando da uno dei quattro lati ci si trovava come in un labirinto. Se ti lasciavi guidare dai colori e dai profumi però non potevi perderti e Giulia non si perdeva anzi, quasi danzava. Dondolava con la sua macchina fotografica a tracolla pronta a cogliere un colore mai visto, un oggetto di paesi lontani, un viso nuovo.

Da una foto appena scattata, sotto la gonna di un vestito lungo esposto appeso ad una stampella, Giulia riconobbe il cane San Bernardo con la borsa azzurra al collo. Oltrepassò la bancarella ma il cane era andato via. Si guardò intorno e vide che trotterellava con la sua grande mole verso l’uscita diretto verso Via delle Ombre Cieche e spintonando un po’ la calca, sgomitando affrettata cercando di non perderlo di vista provò a raggiungerlo.

Imboccò la via del mistero e le sembrò ormai di averlo perso di vista ma eccolo che dietro delle scalinate girò e si infilò in una strettoia fra due facciate.

Ci passava a malapena, le pietre della strada lasciarono posto a ciottoli sparsi, rotondi, come di fiume, per poi finire in un cortile minuscolo sotto un rettangolo di cielo azzurro in alto, schiacciato com’era da due piani di palazzi neanche troppo a piombo. I muri erano scrostati, sotto l’ultimo intonaco beige se ne vedeva uno azzurrino, dai bordi verdi di muffa. Ad un lato della soglia d’ingresso sbeccata, una ciotola e un vaso di una pianta grassa. Infilato direttamente negli stipiti di sassi e cemento c’era un bastone di ferro dove era appesa una tenda fatta di tante strisce piatte di plastica colorata. Dietro era buio.

“Signora? C’è nessuno?” Degli abbài dallo scoppio così profondo che sembravano provenire da qualche buco del centro della terra fecero sobbalzare Giulia che corse via, a velocità per lei prima impensabile, verso il mercato. Non provò nemmeno a girarsi una volta. Arrivata sulla piazza del mercato, con il fiatone, si guardò indietro e il cane non c’era.

Giulia stava riprendendo fiato su una delle palle di cemento che delimitavano la piazza. Il rumore della piazza, gli annunci dei commercianti, il vociare dei passanti, la musica che usciva da qualche stereo d’antiquariato vorticavano alle sue spalle quando rivide il cane San Bernardo con la borsa frigo rientrare nel mercato. “Ma veramente fa la spesa alla padrona?” pensò. Provò a seguirlo di nuovo ma gli sfuggì, perché tagliava sotto le bancarelle o basso dietro la calca nonostante fosse grande e grosso.

Giulia tornò verso la casa della signora. Dietro la tenda dell’ingresso le sembrò ancora più buio di prima. Riprovò, “Signora, è permesso?” Nessuno rispose. “C’è nessuno?” Provò ad allungare una mano oltre la tenda: una porta di legno semiaperta immersa nel buio su cui bussò un paio di colpi. La aprì senza nessuna resistenza.

VI

Il soffitto era basso, l’aria umida e fredda. Negli angoli, ai lati di credenze di bambù, sotto sedie accantonate alle pareti era zuppo di buio. Una lampadina dal vetro ingiallito pendeva da un lungo filo sopra un tavolino spoglio. Un piccolo piano da cucina finiva sotto una finestrella quadrata, l’unica di quello spazio. “C’è nessuno?” disse di nuovo Giulia.

Dietro la sua schiena esplosero un paio d’abbài che la fecero precipitare verso la prima porta che vide davanti a sé e la chiuse alle sue spalle. I latrati proseguirono a ritmo compulsivo. Il cuore accelerava, il respiro gli mancava, lo sguardo fermo puntato a terra. Si ritrovò seduta sul bordo di un letto grande.

Tutto era in penombra. Dei deboli raggi di luce dalla finestra illuminavano il busto di un corpo disteso. Il cane continuava ad abbaiare ferocemente, raschiando le zampe sulla porta. Le pupille di Giulia si adattarono al cambio di luce fino a cogliere il viso completamente immobile di una donna anziana, bianco, le braccia stese. Giulia scattò in piedi urlando, aprì la finestra: dava sul cortile dove era entrata. Si lanciò fuori e tornò su Via dell’Ombre Cieche e corse verso casa.

Passò a perdifiato davanti al bar e all’edicola della piazza dove abitava. Tornata nel suo monolocale chiamò i carabinieri, gli raccontò cosa aveva visto. Dopo aver chiuso la chiamata pianse.

Dopo alcuni minuti si sentì la sirena di un’ambulanza poco lontana. La sera stava scendendo. Giulia poggiava sul davanzale con in braccio Birbo, guardando verso il cielo. La luce del tramonto la colpiva solo dalla punta del naso in su.

L’aria era fresca, l’edicolante chiudeva il lucchetto della serranda, si calcò la coppola in testa e s’incamminò via. I tavoli del bar erano illuminati da candele consumate, un ragazzo fumava una sigaretta, un paio di furgoni bianchi del mercato sfilarono fra due palazzi della piazza ciondolando un po’, i tettucci carichi di roba sfioravano gli archi di pietra delle via che si allontanava dal centro della piazza.

Il doppio bip di un messaggio arrivò. Giulia non rispose. Lo schermo si spense.

La linea del tramonto aveva superato i suoi capelli. Si alzò, si mise in piedi sul davanzale, il corpo intero fuori la finestra, quasi a a sfiorare le tegole rosse. Oltre il tetto del palazzo davanti poteva scorgere il profilo luccicante del mare. Le onde lontane erano come scarabocchi di panna. Aveva decine di foto di questo momento infilate nel suo diario. Così in piedi riusciva a scorgere anche una collina che s’affaccia sul mare, da poco trasformato in giardino pubblico dal comune. Dal prato spuntavano qua e là vecchie mura storiche, punteggiato da fiori e piante di macchia mediterranea.

Su una delle panchine la colpì una macchia azzurra fra una più grande biancastra a chiazze scure. Era il San Bernardo, sdraiato con la testa sulle gambe di una persona. Sembrava una donna dai capelli biondi. Si mise in fretta il giacchetto e uscì.

VII

Una donna dalle rughe profonde dai capelli raccolti di un biondo chiarissimo, dal viso abbandonato, perso verso un punto lontano del mare, carezzava il San Bernardo, sembrava anche lui intristito, teneva gli occhi bassi.

“Signora posso aiutarla?” disse Giulia.

La donna non rispose. Sembrava come bloccata nel tempo, evidentemente sotto shock. Giulia le toccò piano una spalla.

“Signora…?”

La donna sobbalzò: “Devo chiamare l’ambulanza.”

“Si sente male?”

“No… devo… devo… oddio… è caduta…devo chiamare un’ambulanza.”

Giulia guardò il San Bernardo. “Si riferisce alla signora Spencer? L’ambulanza è già arrivata.”

“Già arrivata?”

“Signora, è tardi. L’accompagno a casa?”

“Come tardi? Lidia è appena caduta…”

“E’ sera. Da quanto tempo è qui?”

La donna anziana si guardò intorno e capì qualcosa che le parve incredibile, si portò le mani agli occhi e pianse.

“E’ passato tutto il giorno, non mi sono accorta del tempo che passava, non ho chiamato ancora l’ambulanza.”

“Non si preoccupi, ho chiamato io l’ambulanza.”

Fra poco il sole sarebbe del tutto calato. Il giardino era vuoto. Sulle fronde degli alberi mossi dal vento, le cicale stridevano il loro canto. Dopo molti minuti, Giulia, la donna e il San Bernardo che apparivano a quell’ora come un’unica silhouette scura disegnata sopra la panchina, rimanevano ancora in silenzio.

Poi la donna dai capelli biondi chiarissimi cominciò:

“Ci siamo conosciute quando ero giovane, all’epoca lavorava per vari giornali inglesi, scriveva delle condizioni del dopoguerra in Italia. Il suo nome girava fra i paesi vicini: Lidia Spencer. Dopo che il lavoro nei campi era finito, spesso aiutavo come cameriera in una trattoria, che oggi non c’è più. L’ho conosciuta lì.

Mi ricordo, lei aveva sui trent’anni all’epoca, si sedeva sempre nello stesso punto. Ogni sera prendeva spaghetti al ragù, Dio quanto gli piacevano gli spaghetti. Poi girava la sedia per avere la finestra davanti invece che dietro la schiena, con un taccuino grande da un lato e una cartella aperta, con i negativi delle foto e quelle stampate in bianco e nero. Guardava quelle foto con un intensità, se le studiava da vicino, come uno scienziato scruta al microscopio.

Prendeva appunti mentre mangiava. Ogni tanto s’arrabbiava, strappava un foglio e usciva a fumarsi una sigaretta, poi tornava calma e riprendeva a scrivere. Io ero piuttosto timida. Me ne stavo lì, impalata, le portavo il piatto di pasta, qualcosa da bere, sbirciavo quelle parole e quelle foto ma non capivo niente.

Non avevo il coraggio di parlarle ma qualcosa di lei, piano piano, incominciò ad affascinarmi. Ero povera, leggevo a malapena in italiano, figuriamoci in inglese! Più in la mi ha insegnato lei a leggere e scrivere. Una sera, finito di mangiare, se ne stava con i gomiti poggiati sulla cartellina chiusa e guardava fuori la finestra. Io stavo sparecchiando il suo tavolo, avevo già il piatto finito in mano quando mi chiese come mi chiamavo e così parlammo un po’.

Pensavo di essere solo affascinata dal fatto che fosse una giornalista, indipendente, m’immaginavo chissà che vita avventurosa facesse. Non avevo neanche un ragazzo fino all’ora, però ripensandoci oggi, penso che fossi già innamorata. Più in là mi disse se poteva intervistarmi perché stava scrivendo un’articolo sulle condizioni del dopoguerra, eccetera.

Così cominciai a raccontargli un po’ di cose, la portai dove lavoravo il giorno in campagna con i miei, qualche volta ci aiutava anche, mi ricordo il fazzoletto in testa azzurro che si metteva! Poi lei mi raccontava dei libri che leggeva, parlava di politica, filosofia, io all’inizio non capivo niente, l’ascoltavo solo ammirata, persa nella sua bellezza. Poi un giorno mi disse che il giornale le avevo chiesto di andare nel nord d’Italia. Decisi di andare con lei.

Ero totalmente sprovveduta, pensavo solo di rimanere per quell’inverno, tanto il lavoro in campagna era poco in quella stagione e io ero stanca di quella vita, come molti del mio paese e così andai con lei. Non tornai per trent’anni.

Oggi rimpiango di aver fatto soffrire la mia famiglia, ho vissuto con i sensi di colpa per anni ma eravamo innamorate e capisci, due donne insieme all’epoca era una cosa inconcepibile. Ho fatto delle esperienze incredibili, in giro per l’Italia e l’Europa. Ho imparato a fare fotografie, le facevo d’assistente, le scrivevo in bella i pezzi, o me le dettava, cose così. Mi ha insegnato tutto quello che so della vita.

Una volta il giornale le chiese se voleva andare ad occuparsi della crisi di Suez, in Egitto, dove gli inglesi stavano partecipando. Non sembrava una cosa pericolosa, poi volevamo vedere l’ Egitto, ci sembrò una bella idea. Così decidemmo di andare e lì successe che un giorno venne ferita. Io ero rimasta in albergo e quel giorno non tornò. Pensavo che fosse morta. La ritrovai qualche giorno dopo in un ospedale da campo, ferita alla testa.

Tornammo per un po’ in Inghilterra dove c’era la sua famiglia. Si riprese velocemente, continuammo a viaggiare e a fare i giornalisti. Non sembrava avesse avuto grosse conseguenze dalla ferita, poi anni dopo incominciò a star male, sveniva spesso, soffriva di depressione.

Quando uscirono le prime tac, prima d’allora non c’erano neanche, si scoprì che il proiettile le aveva danneggiato una parte del cervello e che questo aveva comportato una degenerazione. Soffriva sempre più spesso di depressione e altri disturbi post-traumatici.

Parlammo un po’ per decidere di cambiare lavoro, uno più tranquillo, dove poteva curarsi bene ma lei non ne voleva sapere. Non capii subito, litigavamo spesso. Poi più in là con gli anni capii che per lei era troppo importante quel lavoro, era tutto. Io ero stanca. Più c’era una situazione di conflitti, guerre in corso e più lei si fiondava, voleva capire, voleva scavare. Io avevo incubi tutte le notti. Alla fine ci separammo ed io tornai nel mio paese qua vicino.

Poi, parecchi anni dopo, io venivo spesso al mercato del sabato, come tutti e al banco degli alimentari mi raccontarono che una certa Lidia Spencer, ex giornalista, aveva chiesto ad alcuni commercianti una cosa assurda di un cane, di mettergli la roba nella borsa al collo, avevano discusso, una pazza mi dicevano.

Nei dintorni ormai si era sparsa la voce che una famosa era venuta ad abitare lì. Io non ci credevo, chiesi se aveva una cicatrice vicino la tempia e mi confermarono di sì. Così mi sono informata. Aveva comprato una casa in Via delle Ombre Cieche. Era considerata pazza un po’ da tutti perché sbraitava spesso quando era in casa.

Andai a trovarla il giorno stesso e Bridge, questo cagnolone qui, non mi faceva entrare per quanto abbaiava. Chiamai forte Lidia. Feci fatica a riconoscere la Lidia che avevo amato. Mi disse che non voleva vedermi, che voleva restare sola. Non usciva più, rimase sola con il suo cane per anni.

Non so cosa gli fosse successo o perché avesse preso casa proprio lì. Credo che la sua salute mentale fosse peggiorata giorno per giorno. L’ho pregata che si facesse aiutare, se non da me da altri, ma non sentiva ragioni.

Mandava Bridge dai vari negozi, soprattutto il sabato per fare la spesa ma a parte qualcuno intenerito che gli metteva qualcosa, se ne tornava con la borsa vuota. Era una situazione penosa e assurda. Certo, lei aveva un caratteraccio vero, cacciava e insultava chiunque provasse ad offrirle un po’ d’aiuto.

Ero riuscita a guadagnare la fiducia di Bridge. Lo faceva uscire quasi sempre di mattina e il sabato per il mercato. Quella prima volta che l’ho rivista ho sentito che lo chiamava con quel nome. Credo l’abbia chiamato così perché gli piaceva giocare a Bridge. Mi piace immaginare che l’avesse chiamato così perché era un ponte fra lei e il resto.

Così incominciai a venire quasi tutte le mattine, lo aspettavo all’inizio della strada. Leggevo i biglietti che lei lasciava nella borsa frigo, compravo le cose dalla lista e le rimettevo nella borsa. Bridge era rimasto l’unico contatto fra me e lei.

Stamattina però, non l’ho visto uscire, l’ho sentito guaire forte. Sono corsa verso la porta e sono entrata. L’ ho vista stesa sul pavimento. Urlai, Bridge si spaventò ringhiò e abbaiò forte, mi appoggiai a qualcosa e rovesciai un sacco di roba dalla cucina. Poi il cane si calmò.

Ero scioccata, Lidia non respirava più, la misi sul letto. Nel frattempo chiamarono i carabinieri e istintivamente imitai la sua voce e gli dissi che andava tutto bene. Non lo so perché l’ho fatto. Mi sentivo in colpa per quello che le era successo. Corsi via di casa, volevo chiamare aiuto ma non riuscivo a dire niente, la bocca era come sigillata e mi ritrovai qui su questa panchina fino a che non sei arrivata tu.”

Seguirono minuti di silenzio, il guardiano del giardino gli fece segno che stava per chiudere il cancello. Si alzarono.

“Grazie per essere venuta qui. Ora voglio raccontare tutto ai carabinieri e poi torno a casa.”

VIII

Giulia tornò nel suo appartamento, era notte fonda. Prese Birbo e stette un po’ seduta alla finestra. Sopra i tetti dalle tegole rosse grappoli di stelle si sgranavano lungo lo spicchio di cielo buio. Prese il telefonino e digitò sullo schermo. Seguirono tre squilli. Dall’altro capo una voce disse:

“Giulia. Sono contenta che mi hai richiamato.”
Giulia e Il Mistero di Via delle Ombre Cieche testo di andreanesos
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