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Da quando aveva capito come funzionava, Andrea non aveva più smesso.
Non riusciva ancora a capacitarsi di come fosse così semplice, almeno in apparenza.
L’intuizione gli era venuta durante una lezione di meccanica quantistica al Politecnico. Nulla di clamoroso, nessuna rivelazione improvvisa, solo una coincidenza tra una formula alla lavagna e un pensiero che continuava a tornargli in mente da giorni. Un’ipotesi laterale, non contemplata dal docente, che Andrea aveva annotato sul quaderno senza darle troppo peso.
Poi aveva iniziato a lavorarci la sera, per curiosità.
E la curiosità, molto presto, era diventata una dipendenza.
Il salto non richiedeva strumenti complessi. Bastava un veicolo qualsiasi, una motocicletta, un’auto, un parapendio, purché fosse in movimento, e una precisione assoluta nel tempo.
Aveva scoperto che la variabile determinante non era la velocità, ma l’istante. Un singolo secondo poteva fare la differenza tra riuscire e fallire.
Aveva accettato anche i piccoli cambiamenti che si manifestavano sul suo corpo dopo ogni salto. All’inizio erano temporanei, poi sempre meno. La pelle assumeva una tonalità verdastra, segno evidente di un’anemia diseritropoietica causata dall’esposizione alle radiazioni. I valori ematici tornavano quasi normali solo dopo settimane. Andrea aveva smesso di preoccuparsene.
Al quindicesimo salto aveva incontrato Andrea 2.
Non seppe mai se fosse un altro Andrea o se fosse semplicemente ciò che lui stesso stava diventando.
Non era stato uno shock. Anzi, era sembrato naturale.
Andrea 2 era più magro, più pallido, con uno sguardo che lasciava intuire un’esperienza maggiore. Parlava poco e non sembrava interessato a spiegazioni. Si era limitato a dire che lui era arrivato prima, che aveva sbagliato meno volte, o forse semplicemente era sopravvissuto più a lungo.
Fu Andrea 2 a mostrargli come rendere il salto ripetibile.
Il salto doveva avvenire in un istante preciso, che Andrea calcolava di volta in volta utilizzando una formula che aveva progressivamente raffinato, aiutandosi con il BOINC, il sistema di calcolo distribuito a cui era riuscito ad accedere grazie alle risorse dell’Università. Nessun computer personale sarebbe stato sufficiente.
La formula prevedeva diversi parametri, massa, temperatura, velocità relativa, ma soprattutto due dati fondamentali, la posizione esatta da cui effettuare il salto e il livello del multiverso da raggiungere.
Il risultato era sempre un orario, espresso al secondo.
Anticipare o ritardare anche di poco significava fallire.
Il livello del multiverso era rappresentato da un numero intero, positivo o negativo, teoricamente infinito. Il multiverso zero era quello di origine, il primo, quello da cui Andrea era partito senza saperlo. I valori positivi indicavano i salti in uscita, quelli negativi il tentativo di ritorno. Andrea aveva scoperto molto presto che il ritorno non era mai simmetrico.
Le coordinate geografiche, invece, non erano mai cambiate.
Andrea le aveva calcolate più volte per conferma, ma in realtà le conosceva già. Le aveva immaginate, o forse sognate, anni prima, la prima volta che era salito sul Musinè per lanciarsi in parapendio verso la Sacra di San Michele.
Proprio durante uno di quei voli aveva avvertito la prima anomalia.
A circa milleduecento metri di quota, a metà strada verso il monte Pirchiriano, aveva percepito una vibrazione quasi impercettibile, una sensazione breve ma sufficiente a disorientarlo. Per qualche secondo il paesaggio gli era apparso confuso, come se fosse leggermente sfocato. Gli era sembrato persino che i due laghi di Avigliana si fossero uniti in un’unica massa d’acqua.
Dopo l’atterraggio aveva controllato il filmato registrato dalla telecamera sul casco. Proprio in quel momento il video si interrompeva, mostrando una schermata nera di pochi secondi.
Fu allora che Andrea iniziò a collegare quell’episodio a ciò che aveva letto tempo prima sulla cosiddetta linea di San Michele. Una teoria priva di reale fondamento scientifico, di natura pseudoreligiosa, che ipotizzava l’esistenza di una linea retta capace di unire sette luoghi sacri dedicati all’Arcangelo Michele, da Skellig Michael in Irlanda fino al Monte Carmelo in Israele, passando per Mont Saint Michel, la Sacra di San Michele e il Gargano.
Andrea non credeva a nulla di mistico. Nei suoi appunti definiva quelle teorie costruzioni simboliche ex post, ma annotava anche che una coincidenza geometrica così precisa meritava attenzione.
Col tempo comprese che la linea non era una fonte di energia, ma una debolezza. Una discontinuità nella struttura dello spazio-tempo, una zona in cui il salto richiedeva meno correzioni, meno energia, meno perdita di massa.
Il corpo umano, tuttavia, non era fatto per restare fuori fase. Ogni salto lo allontanava leggermente dal suo stato originale. I recuperi diventavano più lenti, gli effetti più evidenti.
Andrea 2 scomparve durante un tentativo di ritorno. O forse non tornò mai nel multiverso giusto.
Da quel momento Andrea smise di saltare per curiosità.
Iniziò a farlo per necessità.
Visitò livelli sempre più distanti, mondi quasi identici ma impercettibilmente sbagliati. In uno la Sacra di San Michele era ridotta a una rovina dimenticata, privata di ogni funzione e significato. In un altro il Musinè non aveva mai assunto quella forma, un rilievo anonimo, privo di nome, incapace di attivare la linea se non in modo instabile.
Il multiverso zero divenne instabile.
Un giorno, rientrando, trovò il Politecnico con un nome leggermente diverso. Nessuno riconosceva il suo volto. Il badge non funzionava. Le sue credenziali non risultavano. Era evidente che quel multiverso non lo prevedeva, come se fosse arrivato da una traiettoria che non gli apparteneva.
Ad ogni modo, con l’esperienza, aveva ormai imparato a riconoscere l’istante, non più come un valore da calcolare, ma come una condizione del corpo.
Capì allora ciò che Andrea 2 aveva intuito prima di scomparire. Non si torna mai davvero indietro. Si torna solo abbastanza vicino da crederlo.
Preparò l’ultimo salto con calma.
Non per esplorare, non per studiare, ma per fermarsi.
Scelse un livello stabile, uno in cui la linea era intatta, i laghi erano due e lui non aveva mai saltato. Inserì il valore corretto, controllò l’istante, avviò il calcolo finale.
Un secondo prima del salto annotò sul taccuino:
“Il turismo presuppone sempre un ritorno.
Io non sono più un turista.”
Il salto avvenne.
Nel multiverso zero, qualche giorno dopo, venne ritrovato un parapendio ai piedi del Musinè, il casco ancora fissato alle cinghie, ma senza traccia del pilota. La telecamera mostrava solo cielo, vento, e poi una schermata nera di tre secondi.
Nulla di anomalo.
Nulla che potesse essere spiegato.