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Quella notte del 1939 puzzava di pioggia e di fumo.
Una città che non dorme, ma geme.
Il vento dell’Atlantico porta odore di carbone e pioggia marcia, le strade sono fiumi neri che ingoiano uomini e segreti. Nei vicoli, i lampioni tremano come fiammelle destinate a spegnersi, e le finestre illuminate rivelano più peccati che speranze.
La Grande Depressione aveva lasciato ferite aperte, e in quelle ferite si annidavano i predatori peggiori: i gangster.
Al Capone, sebbene da anni dietro le sbarre per evasione fiscale, non aveva mai smesso di gettare la sua lunga ombra. Le sue mani, invisibili ma spietate, stringevano ancora le redini dei quartieri.
Le strade erano un mosaico di pozzanghere, illuminate a tratti dai fari delle Cadillac dei boss. Il ronzio lontano di un sax proveniva da un locale clandestino, dove il whisky scorreva più veloce dell’acqua e le risate erano solo un modo per dimenticare che, domani, qualcuno sarebbe stato trovato faccia a terra.
Nella sala privata del Club Imperial, il fumo dei sigari appannava le lampade verdi. Attorno a un tavolo di mogano sedevano uomini che non avevano bisogno di presentazioni: volti segnati, dita ornate d’oro, pistole nascoste sotto i cappotti.
— “La città è nostra, e guai a chi lo dimentica”, disse un certo Salvatore, la voce roca come ghiaia. “Capone può pure stare in gabbia, ma il suo nome comanda ancora.”
Gli altri annuirono in silenzio. Tutti sapevano che la prigione era solo una formalità: i suoi ordini passavano attraverso mille bocche, mille mani sporche.
Un uomo entrò trafelato, l’impermeabile ancora bagnato.
— “Il giudice… quello dell’ultima causa… ha chiesto il doppio.”
Dalla risata soffocata che seguì, si capì che non era un problema. I soldi c’erano sempre. Il sistema era oliato alla perfezione: i poliziotti prendevano buste marroni, i giudici firmavano sentenze già scritte, i politici brindavano con il sangue dei quartieri poveri.
La polizia? Venduta. I tribunali? Una farsa.
Fuori, un giornalista solitario scriveva nomi in un taccuino sgualcito. Henry Sullivan. Aveva visto troppo, e il troppo lo stava guardando dritto negli occhi. Ma non poteva fermarsi: ogni riga scritta era un colpo contro l’omertà. Ogni parola, un rischio di morte.
Quella notte, un regolamento di conti doveva andare in scena. Un rivale stava per essere fatto sparire dietro l’angolo, con due proiettili in bocca come firma finale. Le Cadillac scivolavano lente, e gli uomini preparavano i revolver.
Poi accadde qualcosa che nessuno aveva previsto.
Dal buio del vicolo si udì un rumore sordo, come di catene spezzate. Una figura emerse, alta, avvolta in un mantello nero che pareva divorare la luce dei lampioni. Gli uomini risero, pensando fosse un pazzo. La risata durò pochi secondi.
“Le tue mani sono sporche del sangue dei tuoi stessi fratelli. Io non ho bisogno di armi per fermarti. Ho solo bisogno della notte.”
Un colpo, un urlo. Le pistole caddero sull’asfalto bagnato. Uno alla volta, i gangster venivano messi a terra con una brutalità silenziosa. Niente parole, solo ombra e dolore. Henry, nascosto dietro un’auto, vedeva tutto. Gli sembrava un sogno febbrile, eppure era reale.
Alla fine, quando il vicolo fu cosparso di corpi ansimanti, la figura rimase immobile. Un fulmine squarciò il cielo. E sul petto di quell’uomo, Henry vide un simbolo che faceva gelare il sangue: un pipistrello.
Il giornalista capì.
In un’ America corrotta fino all’osso, dove la giustizia si vendeva al miglior offerente, stava nascendo un nuovo giudice.
Uno che non avrebbe accettato buste marroni.
Uno che non avrebbe stretto mani sporche di sangue.
Il Cavaliere Oscuro era arrivato.
E la notte non sarebbe mai più stata la stessa.
E in quell’ America del ’39, dove la mafia aveva avvelenato ogni cosa, la speranza aveva trovato un volto.
E con un battito d’ali, l’Oscuro Cavaliere svanì nella notte, lasciando dietro di sé soltanto il silenzio.
Un silenzio nuovo, diverso.