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E’ buio, e tra poco verrà a piovere. O a nevicare. Lo so, lo sento proprio alla base del collo, come una leggera puntura d’ape. Verrà a nevicare, sono sicuro!
Adesso però è arrivato il momento, devo cominciare la mia ronda nella foresta. Mi puntello con le mani e spingo con quanta forza ho nelle deboli braccia, ma il mio albero è vecchio, la sua corteccia rigida, le sue fibre dure, senza più elasticità. Fa resistenza. Sono nato dentro questo fusto ma temo che presto dovrò trasferirmi in uno più giovane. Comunque ora devo uscire. Appoggio anche i piedi e le ginocchia, spingo ancora con forza. Mi sto staccando, sento l’aria fresca della notte lambirmi la schiena, brividi impudenti la pervadono. Ancora un piccolo sforzo e sarò nuovamente libero. Dopo un giro completo della Luna. Spingo ancora una volta, inarcando la schiena per la sofferenza. Sono fuori, esausto. Ansimando per lo sforzo mi riprendo. Chiudo gli occhi, tanto nel buio di una foresta oscura durante una notte senza luna, servono a poco.
Invece comincio ad annusare l’aria, alla ricerca di Adek. Dovrebbe essere nelle vicinanze, lui sa sempre quando è il momento di venire da me. Lancio un verso gutturale che imita un bramito di richiamo, e aspetto. Non passa molta tempo che Adek risponde. Viene a prendermi. Lo sento, le sue zampe scattanti e muscolose attraversano le dorate ginestre come una lama il burro. I suoi robusti zoccoli pestano le foglie secche emettendo un pesante scalpiccio. Le sue imponenti corna strappano le liane avviluppate intorno ad alberi senza più vita.
Noi Amadriadi siamo fatti con questa natura. Non materia, non spirito ma entrambi, in proporzioni quantomeno bizzarre. Soggetti, anzi, forse vittime delle leggi che governano questo mondo. Per quest’oscura ragione necessitiamo sempre di un “passaggio”. Adek è il mio. Il suo muso umidiccio sfrega contro la mia faccia dolcemente, in segno di saluto. Io alzo la mano opalescente e lo accarezzo con altrettanto amore. Lo conosco da anni, questo cervo. Da quando era solo un piccolo malandato sulle zampe che, casualmente si appoggiò al mio albero per sostenersi. Da allora siamo divenuti una cosa sola.
Monto la mia cavalcatura. Lui, docile, abbassa il possente collo e piega le zampe davanti come in una specie d’inchino. Sa quanto è difficile per quelli come me vincere la forza di gravità che tenderebbe a pigiarci a terra. Soltanto a costo di sforzi estremi riuscirei a fare qualche passo in quest’aggrovigliato sottobosco, figurarsi percorrere tutta quella strada che mi attende. Gli abbranco il pelo irsuto e mi isso, non senza che Adek provi dolore, ma tace in un incredibile moto d’amore nei miei confronti. Lo so! Ora che il suo garrese lambisce la mia essenza pallida mi ergo; come un parassita ho assorbito una piccola quantità della sua incredibile energia. Quel tanto che basta per sostenermi in una parvenza di dignità che il mio essere spirito mi toglie.
Eccolo…lo ascolto, è il respiro del bosco. Le piante sussultano, parlano, litigano e si amano. Così come gli animali che le abitano o che si riparano sotto le loro ampie fronde. In questo periodo dell’anno alquanto malaticce e anemiche. Non capisco come l’uomo non possa più sentirlo, forse ne ha perso la capacità o il desiderio. Lo compatisco.
Una nostra leggenda, vecchia come la Terra stessa narra che l’uomo discende da una Driade delle querce e da un Amadriade dei castagni. I due s’incontrarono una notte. Lei altera, fatta di luce pura, cavalcava una vecchia femmina di cervo, Lui, possente nella sua inconsistenza materica guidava un grande cervo albino. S’innamorarono, ma le due razze non potevano. Sapevano che, se fosse giunta la voce che due spiriti della foresta così diversi nella loro uguaglianza, si fossero frequentati, la maledizione di entrambe le stirpi sarebbe ricaduta su di loro. Ma il loro amore era più forte.
S’incontrarono, mese dopo mese, sempre nella stessa radura, sempre sotto lo splendore di una Luna luminosa più di una stella. Una notte, una delle tante, decisero che non sarebbero tornati ai loro alberi la mattina dopo, quando la luce inonda quei versanti montuosi cancellando la bruma e la dolce oscurità della notte. Viaggiarono per giorni e giorni, vagando per quei boschi. Liberi e paghi del loro amore. Quando decisero di tornare ai loro fusti questi non si aprirono. Non concessero più a loro di nutrirsi della loro linfa. Alla stessa maniera fece ogni altro albero di quelle foreste. Così, abbandonati a loro stessi, divennero esseri umani. Evidentemente chi li aveva puniti aveva pensato di farlo fino in fondo. Divennero così due esseri completamente diversi eppure obbligatoriamente complementari: l’uomo e la donna.
Noi non abbiamo sesso, forse per questo esistiamo da tanto tempo. Non so, mi pare un pensiero stupido. Adek parte, non c’è bisogno che io gli dica quale strada prendere, lui sa già dove andare. Abbiamo fatto insieme quel tratto decine di volte. La coltre di dense nubi si dissolve in piccoli cirri spumosi, permettendo alla Luna di illuminare questa parte della foresta, facilitando alla mia cavalcatura il raggiungere la tappa intermedia della meta. Gli umani chiamano questo piccolo lago “Calamone” nome formato dall’etrusco “Kala” che ha un significato generico di cavità. Molto umiliante. Io li ho conosciuti gli etruschi, un popolo fiero e selvaggio, ma rispettavano la Natura… e molto.
Noi invece lo chiamiamo Bershtek, che nella nostra lingua significa “Riflesso di Luna”. Adek, procede spedito, conosce sentieri irti ma veloci, non deve seguire quegli stupidi e dispersivi nastri di cemento che l’uomo usa come strade per i propri mezzi di trasporto, che io personalmente trovo troppo rumorosi e maleodoranti.
Il Ventasso, con la sua cima squadrata e scabra mi si para davanti da quella piccola radura nella quale l’uomo, in un impeto di misticismo, ha costruito un grande oratorio. Adek sale l’erta sassosa con un’agilità naturale. In pochi balzi sono in cima, vicino all’enorme croce di ferro. Qualche metro più in basso i riflessi lunari si specchiano sulla superficie increspata. Un delicato quanto innaturale sciabordio raggiunge le mie sensibili orecchie. Mi avvicino come ogni volta, guardingo ma curioso. Poi le vedo…sono quattro, incredibilmente belle nella loro nudità innocente. Due, sedute sulla riva si bagnano i piedi scalciando la superficie del lago mentre le altre nuotano in quelle acque cristalline e gelide, provocando quelle piccole onde che ho catturato con l’udito poco prima. Sono le ninfe Appenninie, quelle irriverenti, giovani pettegole.
Che gioia vederle giocare e ridere con quelle loro voci cristalline. Sono mie amiche, anche se non mi sono mai mostrato. Credo però che sappiano che sono qui perché le loro voci si abbassano e i sorrisi si fanno più larghi. Il tempo passa veloce mentre le guardo schizzarsi addosso l’acqua o rincorrersi tra gli arbusti di nocciolo. Ma devo andare, questa piacevole parentesi deve terminare, la strada da percorrere è ancora molta. Prendiamo il sentiero che costeggia il monte, aggirandolo. La foresta in quei luoghi alti è più rada e i sentieri veloci. Intanto che Adek procede prudente, guardo in basso le luci dell’abitato ai piedi del monte. Il suo nome antico era “Il colle dell’agnello”, almeno credo. Dalla cui contrazione ha avuto origine il suo nome attuale Collagna. Non è questa però la mia meta ma un piccolo abitato posto in una larga valle alle sue spalle.
La ragione del mio viaggio è la malinconia del ricordo, e quel posto la definisce alla perfezione. Per questo, quando sono libero, vengo qua, a struggermi, a tormentare il mio animo esacerbato dalla consapevolezza del tempo che passa e che trasforma tutto secondo i propri desideri. Ricordo ancora quando, secoli fa, questa valle era piena di greggi di pecore e di capre che brucavano pigre l’erbetta fresca, governate da torme di fanciulli giocosi e da uomini che addestravano i loro cani, mentre altri cingevano il loro pezzetto di terra con alte reti per tenere lontani i lupi e i cinghiali. I primi dagli animali, i secondi dagli orti. Adesso la recinzione argentea c’è ancora, e risplende sotto questa luna fredda, ma il posto è vuoto. Solo un ricordo. Un cartello nella lingua locale chiama questa reliquia “I recinti”. Questa intera zona è un museo a cielo aperto alla malinconia e al tempo che corre schiacciando tutto quello che si trova davanti. Mi apposto sopra il piccolo colle che domina la zona, la Luna a farmi da sfondo, grande, materna e pallida. La sagoma possente di Adek staglia maestosa in quel magico sfondo, sulle sue spalle un’aura traslucida…io. Un essere dimesso, flaccido, forse patetico…in questo mondo.
Un fruscio alle mie spalle esce dal boschetto di cerri e carpini. A provocarlo è un lupo insolitamente grosso e nero, quasi deforme nell’aspetto, che si fa largo tra la verzura e viene verso di me. I suoi occhi brillano di una luce rossastra, segno che anch’esso è posseduto, ma da qualcosa di incredibilmente più malvagio di un Amadriade. Si avvicina, i suoi movimenti sono lenti e studiati, tipici del predatore che è. Adek muggisce nervoso e comincia a scalpitare. Ho visto un’altra volta quell’animale nelle mie uscite e so che non porta con sé nulla di buono. Adesso che la luce lunare lo inonda, vedo il suo parassita, una bruma nerastra che sembra farsi trasportare dal vento. L’odore che arriva alle mie narici è quello dell’essenza stessa della morte. Ho voglia di vomitare!
“Chera, che orribile visione!” Dico in modo sprezzante “Cosa fai da queste parti?”
Il lupo si ferma a pochi passi da me. Adek suda per la tensione ma non si sposta. Sento le goccioline che si formano sul suo vello ispido e il respiro che si fa più pesante. Ha paura, come me: Chera è un demone che non va preso sottogamba.
“Guarda chi abbiamo trovato, Brumek!” La voce non arriva da nessun luogo, semplicemente si forma nella mia mente. È così che comunicano le Lamie, figure eteree e animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Ma Chera è diversa; lei è peggio.
“Come mai il re Hyperion, il sovrano di tutti gli Amadriadi va in giro da solo in una notte così scura e pericolosa?” Il tono della sua voce dice più di mille parole. Chissà da quante ore sta aspettando il mio arrivo, acquattata tra i rami del boschetto.
“Non farti beffe della mia intelligenza, mostro!” Ribatto.
“Allora sai perché sono qui, giusto?”
La prima, e fortunatamente unica, volta che la vidi, fu circa cinque secoli fa. Era venuta a portare un incredibile incendio che avrebbe distrutto tutta la zona uccidendo decine di persone e straziando l’intero fianco della Montagna che io ho giurato di proteggere. Combattemmo, ed io ebbi la meglio. La cacciai, e con lei il pericolo per queste terre e le sue genti. Ma adesso è tornata, e sembra molto più forte dell’ultima volta che c’incontrammo.
Il fatto che ora sia qui a fronteggiarmi vuol dire che un’altra sciagura potrebbe abbattersi su questa magica zona montagnosa, sotto forma di un’imponente frana, della scossa del terreno o chissà in quale altro modo la fervida fantasia di quel mostro possa aver creato. Lei adora cavalcare a fianco delle sue prede, lambirne i contorni mentre queste muoiono, rubandone l’anima, della quale si nutre. Mi odia, e con me questi posti intonsi, pesante retaggio della sua prima sconfitta.
“Combattiamo ancora una volta per la salvezza di questa valle?” Chiese, anzi ordina “Se vinci, me ne andrò, risparmiando sofferenza e morte. Se vinco io tu verrai con me nell’Ade!”
“Non posso rifiutare, lo sai bene”.
“È su questo che contavo, re dei boschi. Andiamo nel Tartaro”.
Tartaro. Il solo nome mi fa accapponare la pelle. È un luogo oscuro, sotterraneo e pieno di pericoli, l’unico luogo di tutti gli universi che conosco dove le nostre essenze acquistano solidità e corporeità. Dove combattere può divenire un’attività mortale. Nel vero senso della parola.
Arrivarci è semplice, basta volerlo intensamente, ed è quello che faccio. Chiudo gli occhi su quella splendida valle illuminata degli argentei raggi lunari e li riapro in un luogo totalmente diverso. Cupo, opprimente. C’è solo il buio intorno a me. Oltre ad esso un sommesso rumore, formato da migliaia di altri accalcati, amalgamati in un’unica sinfonia di sofferenza. Le voci dei maledetti da Dio, cui i Campi Elisi sono stati preclusi, raschiano quella fetida aria maledicendolo in tutti i modi possibili.
“Questo è il Buio!” Mi urla la lamia più scura di tutte. “L’essenza viva che, eoni fa, s’impadronì di quella parte di universo, e come un sudicio parassita, l’ha avvolto e inglobato, annullando ogni precedente forma di vita e di luce. Qui combatteremo, e tu Hyperion morirai!”
L’essenza nera di Chera, la Lamia, penetra all’interno del lupo su cui è assisa. L’animale si squarcia, la sua pelliccia nera si rompe in più punti lasciando intravedere la nuda carne. Ulula e guaisce dal dolore mentre strane zampe articolate escono dalle sue ferite e si piantano a terra, Poi anche lui cambia e il tremendo muso diventa un orrido volto di ragno enorme. Chela ha scelto il suo campione, io il mio. La mutazione dura poco ed è indolore per Adek, al suo posto appare un mutapelle. In parte uomo, in parte cervo e in parte Amadriade. Alto oltre due metri, la postura eretta da uomo, un possente palco e una spessa pelliccia da cervo sulla schiena. L’ascia bipenne stretta nel palmo destro. Sono pronto! Ci fronteggiamo solo per un attimo, prima che lei si lanci verso di me emettendo uno stridio spaventoso, sfregando le sue enormi zanne l’una contro l’altra. I suoi occhi multipli brillano d’odio e il suo ventre gonfio sfrega a terra mentre mi assale. Le zampe anteriori, dotate di rostri taglienti si schiantano contro il manico di quercia dell’ascia, lasciando due solchi profondi. Scatto all’indietro proprio mentre tenta di infilzarmi con i suoi venefici denti.
La mia scure rotea veloce, brillando all’irreale luce grigiastra di quel mondo mono tono. Ma le sue zampe si spostano veloci, e io manco il colpo. Un dolore acuto, pulsante alla spalla mi strazia, uno dei suoi uncini ha lacerato la pelle di Adek e si è infilato nella carne. Arretriamo per il dolore condiviso, io e lui, insieme come una cosa sola. Chera si fa più spavalda, dopo questa vittoria, e tenta di prenderci alle spalle. Ci gira intorno, veloce, letale. Prepara il morso, diretto al mio collo. Schivo questo colpo ferale, nel girarmi la mia scure si scontra con una delle otto gambe del mostro che si recide di netto emettendo un liquido nerastro. Chera urla di dolore. Io di piacere.
Ma non faccio in tempo a gioire a lungo. Un’altra di quelle immonde appendici affonda nelle mie carni, all’altezza del fianco. Il dolore è lancinante e mi costringe a piegarmi, perdendo la concentrazione. Lei si avvicina zoppicando, vuole affibbiarmi il colpo finale. Tento di dimenticare il dolore per un attimo, l’orrendo mostro è troppo vicino per pensarci. Armo il braccio con la scure. La lama saetta nel buio plumbeo del Tartaro andando a incastrarsi nell’addome del ragno, che grida. Calco la mano, voglio che il filo s’immerga completamente in quell’immondo corpo, distruggendo qualunque cosa vi sia al suo interno. Viscere avvolte in neri umori si versano a terra, Chera barcolla, ferita. Non faccio in tempo a rialzarmi che altre due lame affondano nel mio corpo, recidendo arterie, tranciando tendini. Ne ho abbastanza. Mi lancio di peso su quella nera carcassa, la scure bipenne mi precede come un maglio. La affondo in quella piccola testa piena di occhi, spaccandola in due. Adesso Chera tace morta, io mortalmente ferito la guardo contorcersi negli ultimi aneliti di una vita indegna. Ma quella era la sua Natura.
Devo tornare nella mia foresta! Con uno sforzo incredibile chiudo gli occhi, come ultima immagine l’immenso aracnide dilaniato, la scure ben piantata nella sua sudicia testolina. La luna si accende quando li riapro. Adek giace agonizzante al mio fianco, frastagliato da immani ferite. Io come lui, sanguino la bava grigiastra che mi nutre. So che sto per morire, insieme al mio amico di sempre, ma il nemico è distrutto e questa gente salva. Sono felice, amo queste persone forti, tenaci, impiegabili dagli eventi della vita quanto da quelli del fato. Sono grato di aver dato la mia vita per loro.
Adesso che la mia esistenza scema, mi faccio una domanda: esiste un’altra vita dopo questa? Noi Amadriadi siamo virtualmente eterni e non è interesse degli eterni chiedersi cosa ci sia dopo: ma io sto per scoprirlo. Quale grande, meravigliosa avventura sarà questa! La luna sembra parlarmi, per l’ultima volta. Mi pare che pianga ma forse è soltanto la vista che va offuscandosi. L’aria sa di autunno. Forse verrà a nevicare. Anzi, ne sono sicuro!