Contenuti per adulti
Questo testo contiene in toto o in parte contenuti per adulti ed è pertanto è riservato a lettori che accettano di leggerli.
Lo staff declina ogni responsabilità nei confronti di coloro che si potrebbero sentire offesi o la cui sensibilità potrebbe essere urtata.
Il rito dell’inquilino del piano di sopra era sempre lo stesso: lo sciacquone del bagno a scandire il tempo, le pantofole trascinate sul pavimento. Ogni sera, alle ventitré precise, quel suono monotono rassicurava Vittorio: il mondo là fuori era caotico, ma sopra di lui qualcuno seguiva ancora una regola, qualcosa su cui poter contare, come un orologio svizzero.
Ma quella sera il familiare scroscio dell’acqua non arrivò. All’inizio pensò fosse un caso, una dimenticanza. Aspettò la sera successiva, e poi le altre. Il risultato era sempre lo stesso. Anzi: da sopra non arrivava più alcun rumore. Solo silenzio, un silenzio assoluto.
Scese le scale e osservò la facciata del palazzo Coccapani. Vi abitava da due anni ormai, ma era come se si fosse affezionato a quella costruzione; in particolare, alla facciata. Non sapeva neppure perché gli piacesse: era così semplice e spartana, ma era così. L’edificio si sviluppava su tre piani oltre al pianoterra, con un’estetica che emanava ordine e simmetria. Sul lato sinistro, le finestre si incolonnavano in verticale creando una linea continua che guidava lo sguardo verso l’alto.
A destra, invece, il ritmo cambiava: i balconi sporgevano solo al primo e al secondo piano, piccoli affacci sospesi sulla strada; il pianoterra e l’ultimo piano ne erano privi, interrompendo la successione. Proprio sotto questa colonna di balconi si trovava l’ingresso principale.
Tutte le finestre e i balconi erano illuminati, diffondendo un’aria di festa in tutto il condominio. L’unica apertura che si sottraeva a quell’armonia di luci era la finestra dell’appartamento del signor Carra: spenta, come una nota stonata nel concerto di luci.
Tornò nel palazzo e risalì le scale. Al piano dell’appartamento del Carra il corridoio era vuoto. Si fermò davanti alla porta e bussò. Nessuna risposta. Bussò ancora. Silenzio. Alla fine, la porta si aprì un poco, come se qualcuno l’avesse appena socchiusa. Vittorio esitò, poi spinse leggermente.
Tutto sembrava in ordine, ma dell’uomo metodico — come lui lo definiva — nessuna traccia. Vittorio rimase immobile sulla soglia. L’appartamento era così ordinato da sembrare una scenografia. E nell’aria aleggiava un leggero odore di candeggina.
Richiuse la porta con cautela. Scese di un piano e bussò alla signora Belletti, la condomina più anziana. Lei socchiuse l’uscio.
«Mi scusi, signora… l’inquilino del piano di sopra. Sa se è successo qualcosa?»
La donna lo scrutò a lungo, poi rispose:
«Quell’uomo non era fatto per vivere qui. Troppo poco rispettoso del silenzio.»
La porta si richiuse, rapida, come una lumaca che rientra nel proprio guscio.
Da quel momento Vittorio iniziò a prestare più attenzione ai condomini. O forse erano loro a prestare attenzione a lui. Infatti, ogni volta che usciva dall’appartamento, aveva l’impressione che qualcuno lo spiasse dal ballatoio o da una porta socchiusa, proprio come aveva fatto la Belletti.
Una notte, mentre cercava di prendere sonno, sentì un suono provenire dal soffitto: un raschiare lento, come un mobile trascinato millimetro dopo millimetro. Sgranò gli occhi. L’appartamento doveva essere vuoto. A meno che non fosse arrivato un nuovo inquilino… ma non aveva notato facce nuove per le scale del condominio e la cosa gli parve strana.
Alle stranezze si aggiungeva un’impressione che neppure a sé stesso riusciva a spiegare. Quando rientrava dal lavoro, aveva l’impressione che i corridoi si restringessero, come se le pareti piano piano si richiudessero. Che strana sensazione, pensò.
La sera seguente trovò un biglietto infilato sotto la porta. Era scritto con una calligrafia angolosa:
«Le abitudini vanno rispettate. Le conosceva, vero?»
Il foglio non era firmato.
Salì di nuovo al piano di sopra. La porta dell’appartamento del vicino era chiusa e, stavolta, dall’interno veniva un rumore come di mobilia spostata.
«C’è… c’è qualcuno?» chiese, incerto. Nessuna risposta.
Passarono i giorni, e il comportamento dei vicini divenne sempre più ambiguo. Quando al ritorno dal lavoro passava davanti alla guardiola del portinaio, l’uomo gli chiedeva conto dei rumori fastidiosi che i vicini avevano sentito provenire dal suo appartamento nell’orario vietato. Lui rispondeva che non aveva fatto rumore nell’orario vietato, e che forse i rumori provenivano da un altro appartamento e non certo dal suo. Ne era sicuro, anche perché la sera si coricava ben prima dell’orario stabilito dal divieto. Il portinaio stava a sentire le sue rimostranze e le accoglieva con indifferenza; almeno, era così che sembrava a Vittorio.
Dopo qualche giorno, decise di spiegarsi bene in un confronto diretto col portinaio. L’uomo era chino su un secchio d’acqua, le maniche rimboccate, lo sguardo fisso sulle piastrelle luccicanti. Passava lo straccio con movimenti rapidi e precisi, come seguendo una coreografia invisibile.
«Buongiorno… posso parlarle un momento?» chiese Vittorio, avvicinandosi con cautela.
Il portinaio non si voltò subito. Terminò una passata, poi un’altra. Solo allora sollevò lo sguardo, gli occhi rossi e stanchi.
«Devo tenere tutto in ordine, signor Coletti. Sempre. Ogni cosa al suo posto.» La voce era bassa, rauca.
«Mi dica veloce», aggiunse.
«È per l’inquilino del piano di sopra. Non si vede da giorni. La porta era aperta, poi richiusa, e… ci sono rumori. E i vicini, il biglietto… Non capisco.»
Il portinaio si irrigidì. Tornò a strofinare, più forte, quasi graffiando le piastrelle.
«Non devo parlare. Non dovrei. Ci sono regole, capisce? Regole precise.»
«Quali regole?» insistette Vittorio.
L’uomo lasciò cadere lo straccio nel secchio. Si avvicinò quel tanto che bastava a sussurrargli nell’orecchio.
«Lei deve stare attento.»
«A cosa?» deglutì Vittorio.
Il portinaio distolse lo sguardo.
«Faccia quello che trova scritto.»
Poi tornò al lavoro, ossessivo, lo straccio che scivolava sul pavimento con lena rinnovata.
Quando Vittorio era già sulle scale diretto al suo appartamento, sentì ancora le parole del portinaio, come un’eco lontana:
«Le norme… ma quelle non scritte, mi raccomando, solo quelle… sono tutto, qui dentro.»
Un giorno si decise a esplorare il condominio, perché non lo conosceva e magari poteva incontrare qualcun altro oltre alla signora Belletti e chiedere spiegazioni.
Appena varcata la soglia del primo piano, Vittorio si accorse che il palazzo non era più così familiare. I corridoi si piegavano in modi inattesi, scale che ricordava portavano a pianerottoli che non aveva mai visto. Le finestre dei corridoi mostravano scorci che non aveva neppure immaginato: un giardino interno con un piccolo prato verde, un terrazzo illuminato da luci come un piccolo palco, ma la cui funzione gli sfuggiva. Era come se l’edificio fosse diventato un labirinto vivo, costruito per sfidare chiunque osasse esplorarlo.
Guidato dall’istinto, Vittorio salì piano dopo piano. Più saliva, più il palazzo sembrava crescere e allungarsi, come un enigma che chiedeva di essere risolto.
All’ultimo piano, Vittorio trovò una porta diversa dalle altre. Ma era chiusa da un lucchetto massiccio. Pensò in quel momento — chissà perché — di impersonare un novello Teseo che aveva appena percorso il labirinto di Cnosso, e che dietro a quella porta forse abitava il mostro del Minotauro.
Quando tornò al suo appartamento vide un foglio di carta appeso con puntine all’uscio di casa: «La direzione del condominio annuncia che domani alle 15 si terrà al piano terra la riunione condominiale annua. Si prega di essere puntuali.»
La riunione annuale del condominio Coccapani si teneva sempre nella stessa stanza ricavata al pianoterra: un vecchio locale di servizio trasformato in sala assemblee. Vittorio arrivò puntuale, come sempre. Gli altri erano già tutti seduti, come se lo aspettassero.
La signora Belletti era in prima fila, busto immobile, mani intrecciate sul grembo. Il portinaio era appoggiato allo stipite della porta, lo sguardo basso, come se avesse paura di incrociare quello dei presenti.
«Bene, possiamo cominciare?» chiese l’amministratore, un uomo dalla voce piattamente burocratica.
«Io avrei due punti urgenti di cui parlare,» disse Vittorio, sollevando la mano.
Nessuno si voltò. Nessuno fece cenno di averlo sentito.
L’amministratore si aggiustò gli occhiali.
«Il primo punto all’ordine del giorno riguarda le norme di silenzio notturno. Come già ricordato nelle ultime tre comunicazioni…»
«Ecco!» sbottò Vittorio. «Proprio di questo volevo parlare. Sono regole assurde! “Niente porte che sbattono dopo le 21:30, niente spostamenti di oggetti dopo le 23”… ma vi rendete conto? Sembra di vivere in una caserma.»
Il portinaio sollevò lo sguardo, rapido, come se la parola “caserma” fosse un’offesa personale.
«Signor Coletti,» intervenne fredda la Belletti, «qui nessuno trova assurde le norme. Sono necessarie. L’armonia dell’edificio va preservata.»
«L’armonia dell’edificio?» ripeté lui, incredulo. «Parlate dell’edificio come se fosse una persona!»
L’amministratore sfogliò alcune pagine.
«Ci sono state diverse segnalazioni di rumori provenienti dal suo appartamento, negli ultimi mesi. Rumori oltre l’orario consentito.»
«Io?! Ma se vado a dormire alle dieci! E poi, vi rendete conto che fate queste segnalazioni senza indicare mai chi le fa? Sempre: “l’inquilino del piano tale”, “un residente ha notato”… È tutto così vago, così… impersonale!»
«Perché non conta chi segnala,» disse la Belletti, inclinando appena la testa. «Conta il rispetto delle norme.»
«Norme che decidete voi, immagino.»
Un altro mormorio. Più cupo, più profondo.
L’amministratore picchiettò le dita sul tavolo.
«Signor Coletti, dovrebbe cercare di comprendere che il quieto vivere dipende da tutti. Qui dentro ogni rumore ha un peso. Ogni gesto ha una conseguenza.»
Vittorio sospirò, esasperato.
«Vi ascolto parlare e mi sembra che stiate obbedendo a una… volontà superiore del condominio stesso! Come se il palazzo avesse un’anima e voi foste i suoi sacerdoti. È ridicolo.»
Il portinaio sussultò, come pizzicato da una spina invisibile. Le chiavi che portava alla cintura tintinnarono — un suono breve ma netto — che zittì la stanza. Tutti si voltarono verso di lui.
Il portinaio si fece avanti, con passo lento.
«Le regole non sono ridicole, signor Coletti,» mormorò. «Sono… necessarie. Proteggono. Mantengono tutto al suo posto.»
«Proteggono da cosa?»
Silenzio. Un silenzio spesso, uniforme, come se la stanza trattenesse il respiro.
Poi la Belletti rispose:
«Proteggono dal disordine.»
«Dal disordine?»
Vittorio rise, ma fu un suono breve, stonato. «Ma vi rendete conto? Non stiamo parlando di crimini! Parliamo di una porta chiusa male, di un rubinetto che gocciola, di un passo un po’ più pesante…»
«Le abitudini,» disse l’amministratore, scandendo ogni sillaba, «vanno rispettate.»
Le stesse parole che, settimane dopo, avrebbe ritrovato scritte nel suo primo biglietto anonimo.
«E se qualcuno non le rispetta?» chiese Vittorio, provocatorio.
Un fremito percorse i presenti. Non uno alla volta: tutti insieme, come un unico corpo. Il portinaio rispose, senza distogliere lo sguardo da lui:
«Allora il condominio interviene.»
Vittorio rimase immobile, improvvisamente più freddo.
«E che significa?»
«Che verranno prese misure adeguate,» concluse l’amministratore, chiudendo il fascicolo con un tonfo secco. «E ora possiamo passare al punto successivo.»
Di colpo, la conversazione riprese con naturalezza.
Vittorio guardò tutti uno per uno. Nessuno incrociò il suo sguardo. Per un attimo — un solo, brevissimo istante — gli parve che le pareti della stanza si fossero avvicinate di qualche centimetro. O forse erano le sedie. O le persone. Un impercettibile scarto nella geometria dell’ambiente.
Si stropicciò gli occhi. E vide che tutti lo osservavano, immobili, con la stessa esatta espressione. Come se stessero aspettando una reazione.
Vittorio cominciava ad averne abbastanza di quelle regole e di quei divieti. Cominciava ad avere, sempre più spesso, l’impressione che ci fosse una sorta di complotto nei suoi confronti. Inoltre, le lamentele del portinaio avevano sempre qualcosa di impersonale: non si riferivano mai a un singolo condomino, ma sempre a norme generali infrante, divieti e un insieme di regole non scritte che sembravano provenire da un regolamento diverso da quello ufficiale. Come se quell’entità misteriosa che era l’edificio stesse cercando di modellarlo, correggerlo, incastrarlo in un ruolo già predefinito.
Aveva ormai la netta impressione che il palazzo avesse un’anima fatta di quelle norme, di quei richiami, e che fossero le dirette emanazioni del condominio: un corpus di leggi che andava oltre qualsiasi regolamento ufficiale.
Doveva andarsene da quella gabbia di matti, non poteva più durare un altro giorno lì dentro e doveva farlo il prima possibile per non diventare pazzo come il portinaio e i condomini. Anzi, doveva farlo subito, quella notte stessa, e non procrastinare. Così salì in appartamento e cominciò a infilare la sua roba nelle valigie: bastava lo stretto necessario, sarebbe tornato poi l’indomani a prendere il resto. Ma doveva liberarsi da quell’atmosfera opprimente del condominio.
Scese le scale e vide la signora Belletti che lo aspettava davanti alla porta del suo appartamento e che, appena lo vide, esclamò:
«Ma dove va nel cuore della notte, signor Coletti? Lo sa che non si può uscire alle due del mattino… è una norma del condominio.»
Vittorio si trattenne dal darle uno spintone e gli sfuggì solo un «vaff…», ma poi trattenne anche quello.
Vide un altro condomino al piano terra che aveva aperto solo a metà la porta e lo guardava timoroso dallo spiraglio, come un essere strano e pericoloso: infatti, appena Vittorio passò davanti alla porta, la richiuse subito. Ma non era finita: davanti all’ingresso si stagliava la sagoma riconoscibilissima del portinaio, con in mano lo spazzolone, quasi fosse un’arma.
«Lei dove va a quest’ora? Lo sa che non si può uscire dal condominio a quest’ora. Anzi, per i trasgressori è prevista una sanzione di 500 euro.»
«Ma mi lasci passare o chiamo i carabinieri, sa?»
E Vittorio al portinaio diede uno spintone per passare.
«Ma cosa fa? Non può trattarmi così! Lei lo sa chi sono io? Io sono il difensore dell’ordine qui dentro, e lei non può trattarmi in questo modo!»
Vittorio non aveva calcolato che il portone fosse chiuso e che le chiavi dovesse averle il portinaio stesso.
«Mi dia le chiavi, su. Non voglio fare casino.»
«No, mi spiace, il regolamento è chiaro su questo punto…»
«Ma ascolti, io me ne voglio andare. Però non voglio farle del male, ma se lei mi obbliga…» E tese una mano verso il portinaio che, non ancora ripresosi dallo spintone, gli diede subito la chiave.
«Ma sappia che qui non tornerà più! La serratura domani sarà cambiata e lei non rientrerà più qui dentro!»
«Ma chi se ne frega! Vada all’inferno lei e tutto il condominio.»
Non appena varcata la soglia dell’ingresso, Vittorio tirò un grosso respiro ed ebbe l’impressione di rinascere.