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Era trascorsa una buona mezz'ora da quando si erano immersi dalla riva dell'oasi. La scorta d'aria sul manometro di Wasil era ancora, a sua grande sorpresa, a 150. Significava soltanto una cosa: aveva aria a sufficienza, in abbondanza, per poter continuare, se solo lo avesse voluto, per altre tre immersioni. Tutto era silenziosamente perfetto. Non un rumore sospetto, non una vibrazione di troppo era propagata dall'acqua. "C'è fin troppa calma", pensava la donna mentre guardava l'uomo che l'aveva condotta fin lì: Soliman. Wasil non smetteva di scrutarlo di sottecchi, provando un mix di piacere e timore reverenziale nei confronti di quell'ex militare che a volte le sorrideva, altre volte le evitava lo sguardo. L'aveva addestrata con severità, ma era stato per lei anche una compagnia piacevole, un uomo che le aveva ammiccato per via dell'ustione solare sul decolleté e che l'aveva rassicurata nei momenti di timore, evidenziando quanto loro due fossero simili. Erano trascorse settimane da quando lo aveva conosciuto, ma, sebbene ci fossero state diverse occasioni, nessuno dei due aveva osato fare il passo in più. Il dolce e caldo mistero aleggiava senza mai toccare terra.
Wasil lo guardò attraverso la maschera subacquea. Quell'uomo sembrava, come sempre, sondare l'acqua in ogni sua molecola. La donna pensava che seguirlo a pochi metri di distanza fosse l'idea migliore. Lasciar pinneggiare Soliman poco avanti a lei significava una cosa soltanto: fidarsi di una guida sicura. Nessuno conosceva meglio di lui la conformazione del fondale che stavano navigando. Poco lontana dalla sua guida, ella si sentì come in dovere di rimanere un mezzo metro dietro di lui. La vegetazione attorno a loro sembrava spiccare nel buio come se essa stessa tracciasse l'itinerario, illuminando con i suoi colori tropicali l'oscurità della notte sott'acqua. Olga osservava il suo compagno di immersione avanzare nelle tenebre sommerse: non capiva per quale motivo, ad un tratto, aveva smesso di ammiccarle così amorevolmente. Guardava solo avanti e, di tanto in tanto, si voltava verso il suo ostaggio liberato per assicurarsi che stesse bene, o almeno così pensava Wasil, la prigioniera miracolata. In realtà la ragazza non riusciva a smettere di chiedersi cosa cercassero di dirle quei due occhi mentre la fissavano dritta negli occhi come in una specie di consenso che a lei sembrava più un'affermazione di qualcosa. Ma cosa? Wasil guardò verso il basso, allontanando da sé ogni pensiero nebuloso, accusandosi di essere troppo sensibile. Le loro torce illuminavano pareti irte che si estendevano a perdita d'occhio sotto ai loro piedi. Olga ne seguì con lo sguardo la conformazione finché la roccia non si dissolse nell'oscurità a parecchi metri più in basso. Un foro attraversava la parete in senso trasversale: era abbastanza largo perché i due potessero illuminare con le torce un lungo anfratto oltre la barriera di roccia che avevano di fronte: un tunnel che iniziava dal foro superficiale e che si perdeva in remoti meandri della parete.
Un sonoro e continuo bip si propagò nell'acqua a intervalli regolari. Wasil pensò che quel suono provenisse dal computer che portava al polso, un dispositivo subacqueo impostato sulla base di alcuni parametri che era meglio rispettare. La donna guardò il polso dove il computer era fissato con una cinghia, ma quest'ultimo non sembrava segnalare nulla di particolare. Allora si guardò attorno e una piccola luce rossa intermittente le passò davanti agli occhi emettendo bagliori a ritmo regolare a circa un secondo di distanza. Il bip si fece più frequente, un segnale che Wasil non ignorava: qualcosa stava accadendo, ma il suo computer non segnalava nulla. Poi la luce rossa si materializzò davanti a lei, come un allarme. Era troppo tardi per capire se fosse un errore, ma il corpo le diceva che la minaccia era già lì.
Poi, tutto quello che successe in seguito a quel momento sospeso, successe in fretta. Wasil si arrestò di colpo quando vide Soliman invertire bruscamente la rotta. Lo vide guizzare a pochi centimetri da lei nuotando nella direzione opposta alla sua. Il suo braccio teso, la bella mano chiusa a pugno. Significava soltanto una cosa nel linguaggio subacqueo: pericolo. Poi lo perse di vista. La donna smise di nuotare di riflesso, ma una forza invisibile, dietro di lei, la trascinava lontano. Era Soliman che aveva afferrato il primo stadio della sua bombola e la stava portando nella grotta oltre la parete che solo qualche attimo prima stavano osservando. E il fondale sabbioso della grotta dove l'aveva trascinata Soliman, una voce maschile che la chiamava per nome, l'immagine sfumata di un volto, era per Olga l'ultimo ricordo che conservava.
Qualche mese prima che Wasil fosse coinvolta nella missione, era soltanto una rifugiata. Una psicologa ritrovata ad esercitare la propria professione in un ridente paese dell'Italia settentrionale. Aveva trovato quello che lei pensava fosse un amore, quando, in realtà, non era che l'ennesima delusione. Aveva conosciuto il suo ex fidanzato, un tale Simone Mantovani, che svolgeva la professione di insegnante di educazione fisica, uno stacanovista che nel tempo libero aiutava i suoi genitori nell'attività di famiglia: una pasticceria che godeva di un'ottima fama nel piccolo centro del paese di montagna in cui si era ritrovata. Poi Simone aveva lasciato Olga durante una cena. Lei, sprezzante, si era alzata dal tavolo per tutta risposta, accusando la sua decisione di essere condizionata dal parere della madre che considerava le donne dell'est Europa un poco troppo legate al capitale. Ma Olga era diversa e Simone lo sapeva. Alla base doveva esserci dell'altro. Guarda caso, poco dopo la rottura, Wasil era stata contattata telefonicamente dall'ambasciata russa in Italia e, in un momento di crisi nera, la donna aveva cercato Mantovani presentandosi nella scuola in cui insegnava, senza trovarlo. Sia in presidenza che in segreteria avevano detto che si era preso un lungo periodo di ferie. Aveva provato a contattarlo telefonicamente, ma il numero che componeva - il solito che aveva sempre tenuto - risultava inesistente. Lo aveva cercato in pasticceria, ma, alla domanda di Olga di dove fosse Simone, il volto della madre del ragazzo assumeva un'espressione impietrita. Olga si era sentita dire che nemmeno lei aveva avuto notizie sul figlio e che, a partire dalla mattina in cui avevano trovato la vetrina rotta, erano capitati strani eventi. La sparizione di Simone, le domande di una giornalista, le chiamate insistenti con prefisso dell'area milanese che avevano scoperto arrivare dall'ambasciata. Sebbene Olga fosse stata attivamente impegnata nella politica del suo paese d'origine, non era mai stata in vita sua coinvolta in missioni segrete, ma ora qualcuno aveva notato il suo potenziale. Qualcuno ai vertici.