Inferi

scritto da Crisocione61
Scritto Un anno fa • Pubblicato Un anno fa • Revisionato Un anno fa
0 0 0

Autore del testo

Immagine di Crisocione61
Autore del testo Crisocione61
Immagine di Crisocione61
Tutti i personaggi femminile e l'ambientazione, in questa parte del racconto, sono reali, frutto di giorni di ricerca...ne sono molto orgoglioso.
- Nota dell'autore Crisocione61

Testo: Inferi
di Crisocione61



Primo capitolo



Parigi; 1930
“Non esistono in questo mondo ingressi, più o meno nascosti, verso dimensioni parallele. L’unica maniera di accedere a questi mondi alternativi, a questi piani immateriali, rimane la morte”.
La sala riverberò macabra il suono di quella terribile parola, catturando l’attenzione delle numerose presenti nel salotto parigino di Natalie Clifford Barney, una meta ambita tra tutte le donne che nella società francese di inizio ventesimo secolo intendevano vantare capacità artistiche più o meno veritiere. Anche se, per amore della compagnia femminile, il salotto era aperto a chiunque possedesse perfino un minimo talento nella conversazione. Natalie Clifford Barney era una donna libertina, femminista convinta e ancor di più, lesbica fino al midollo. Ferma oppositrice della società maschile, che considerava opprimente e stupida, non lesinava favori amorosi a tutte quelle donne che ne attiravano le attenzioni sensuali e delle quali amava circondarsi con dedizione.
Nella sua casa di Neuilly organizzava incontri riservati alle sole donne artiste o scrittrici; il "Salon", che aveva lo scopo di farle incontrare e incoraggiarle ad esprimersi. Motivo per il quale la presenza di un uomo, quel giorno apparve una scelta quanto meno azzardata… almeno per l’uomo, intendo. Anche se non era un caso così raro. Il Salon era famigerato per la crudeltà colla quale grandi menti femminili come: Renée Vivien, Romaine Brooks, Lucie Delarue-Mardrus, Gertrude Stein e Djuna Barnes stuzzicavano l’ego maschile del malcapitato dandogli abbastanza corda per poi impiccarsi… metaforicamente, subissandolo di domande alle quali diveniva praticamente impossibile trovare una risposta adeguata. Frammentandolo psicologicamente e gioendo di quella pratica sadica.
Non era questo il caso; il giovane Anton Holdcastle era appena arrivato nella grande capitale da Guildford, nella contea di Surrey trascinando con sé la fama di scrittore esoterista e grande antiquario dell’occulto che si era via via ingigantita ad ogni incontro con annoiati salottieri che trovavano le sue argomentazioni affascinanti. Col suo forbito modo di esporre le scoperte archeologiche e di rivestirle di un’aura di sacralità quasi mistica, unita al fatto che trattava di questioni estremamente in voga in quel momento, era una delle persone più apprezzate in quei contesti letterari in cui menti eccelse ma decidue, si chiedono senza posa quale fine faranno le loro anime dopo l’ultimo viaggio.
L’uomo era entrato poco prima come farebbe un condannato verso il patibolo ma, anche con gli sguardi perfidi e sarcastici delle frequentatrici che lo squadravano, non poté non notare l’estrema ricercatezza di quella grande stanza illuminata da smisurati lampadari ricolmi di lampadine sagomate e contorte. A quelle si aggiungevano decine di applique sparse a illuminare preziosi capolavori dei più grandi scultori di quel tempo e di altri più vetusti ove il rigore della morale non era soggetta ai dettami stringenti del pensiero cristiano. Alle pareti preziosi quadri che riproducevano grandi battaglie tra eserciti antichi nei quali intere legioni di soldati venivano squartati dai loro nemici si alternavano in un morboso contrasto a dipinti raffiguranti eleganti figure femminili o completamente nude oppure coperte solamente da ridicoli paramenti trasparenti che nulla potevano contro la prorompente femminilità dei vari soggetti.






“La Morte! “Continuò in tono stentoreo Anton Holdcastle dopo aver attirato su di sé l’attenzione delle presenti.
Poi si riprese con un sorriso.
“Qualcuno ha scritto che la Buona Sorte, al pari della bellezza, è una virtù non coltivabile ma intrinseca al filo del nostro destino, ebbene, è nel momento della solenne dipartita che questa verità diviene manifesta in tutto il suo maledetto splendore. Indipendente dalle colpe commesse in vita la Sorte ti può portare indistintamente all’Averno piuttosto che in Eliso, oppure in quel milione di mondi che esistono fra questi due estremi. Voi mi guardate sconcertata, signora Clifford Barney, non capite…lasciate che cominci dall’inizio, allora. Come si può coltivare, far accrescere la bellezza! Quando essa giunge all’apice di sé stessa, comincia a sfiorire e svanisce in men che non si dica. A meno di non avere in casa un mistico simulacro a propria immagine, di tela e colori a olio, come quello che possedeva Dorian Grey confinato nella propria soffitta e che abbruttiva e cambiava in sua vece ad ogni peccato egli commetteva o alle offese del tempo che trascorreva incurante. Al pari, la buona fortuna, è qualcosa che vi viene data…o negata, in base ai disegni di un destino che non siamo in grado di comprendere.
“Mio caro Anton, l’arte oratoria che manifestate è senza pari ma le vostre teorie sono alquanto sconcertanti, dovete ammetterlo. Qual è allora il senso della morte, allora, secondo voi, se non quello di privarci di ciò che abbiamo di più caro e di gettarci ignudi come neonati in un mondo che non è il nostro?”
“Di questo, cara signora, ci preoccuperemo quando giungerà la nostra ora. Ma non è questo l’impiantito del mio ragionamento”.
“E quale forse intende essere?” Incalzò Gertrude Stein, un essere che di femminile aveva davvero poco: viso contrito, capelli corti e neri e lineamenti marcatamente maschili.
Anton la guardò, riusciva quasi a percepire nei suoi occhi l’odio che provava per il sesso di cui lui era rappresentante mescolato all’incredibile curiosità della scrittrice. Anton Holdcastle fissò per un istante quegli occhi corvini, quasi volesse leggerne l’anima. Si scosse, come se quello che aveva letto l’avesse turbato.
“Non vi ho raccontato la parte più importante delle mie ricerche, care signore!” In quel contesto parve insolente dare delle “care signore” a quella schiera inferocita di suffragette ma Anton lo fece con tanta grazia che molte di loro ebbero un moto di timida contentezza; lui continuò: “Se io vi raccontassi che, solo in un caso ben specifico, a ognuno di noi è consentito di sbirciare oltre il velo della fine della vita per vedere in faccia ciò che davvero ci attende dopo, mi potreste credere?”
Lucie Delarue-Mardrus una giovane e bellissima scrittrice di poco più di vent’anni si alzò dalla sua seggiola rivestita di velluto color verde marcio e si avvicinò all’oratore con un’espressione accigliata: “Sappiate mio caro amico, che non è galante deridere gli intelletti altrui senza avere uno straccio di conferma alle proprie teorie balzane”.
Ovviamente non era la prima volta che Anton Holdcastle si trovava di fronte simili affermazioni, le sue però non erano solo elucubrazioni congetturali, sapeva quindi come trarsi d’impaccio anche in condizioni come quella: nella quale una torma di donne inferocite tentava di deridere e di umiliare le sue convinzioni.
“I miei studi cominciarono otto anni fa, all’incirca. Ero poco più di un ragazzotto a quel tempo, privo della visione totale di quella che sarebbe stata la mia vita, quando mio padre, Sir Arthur Holdcastle, noto antropologo e curatore del museo della Contea di Surrey, venne mandato in quella terra chiamata Messico. Una spedizione, guidata dai soliti tedeschi, aveva riportato alla luce una città sepolta nell'Istmo di Tehuantepec, sotto spessi strati di sedimenti che ne datavano la rovina ad almeno diecimila anni prima. Alcune mummie dell’epoca giacevano tra gli scavi e a mio padre, grande esperto di civiltà precolombiane in generale e di quella Olmeca nello specifico, venne chiesto di datare e periziare quei miseri resti imbalsamati. Venni catapultato in quella realtà fatta di polvere, di caldo e di sudore. Mentre mio padre sventrava quelle secche antichità e ne controllava ogni minimo particolare, io giravo per gli scavi, tentando di comprendere come facessero fior di archeologi germanici a capire da misere impronte sulla sabbia che proprio in quel luogo, millenni prima, si ergeva un tempio, un negozio oppure un’umile abitazione.
Fu proprio girando tra le rovine che lo vidi: un buco grande quanto un pugno era appena stato scoperto sotto una sottile lastra di ardesia, tra i resti di quello che era stato ritenuto il tempio principale dell’intero complesso. I giovani apprendisti che avevano spostato il coperchio non se ne erano accorti, ed io mi guardai bene dall’avvertirli, tanto era la curiosità…o la noia. Non era vuota!”
Ora nella grande stanza si sarebbe potuto udire il monotono sibilo del volo di un moscerino, tanto la sospensione dell’attesa aveva tolto la voce a ogni presente, impresa di per sé alquanto ardua normalmente, trattandosi di un concistoro di donne! Con un gesto plateale Holdcastle si alzò, si aprì la giacca scura e trasse da una taschina interno del suo panciotto color ginestra un piccolo contenitore di terracotta, a vederlo pareva antico oltre ogni immaginazione. Raffigurava un uomo pingue con in testa uno strano copricapo a imbuto e le braccia grassocce che formavano le anse di quello stravagante vaso.
“La testa ruota su sé stessa, e il piccolo contenitore si apre. Ora, io non so molto di archeologia, né mai confidai a mio padre il segreto di quel furto, ma credo che non sia mai stato trovato qualcosa con un simile meccanismo”. Così parlando svitò il capo, mostrando alle signore che si accalcavano intorno il minuscolo e preciso filetto che univa il corpo alla testa. Da tutte quelle donne uscirono gridolini di sorpresa.
“E cosa vi era contenuto?” Chiese Djuna Barnes, una scrittrice americana il cui volto pulito ricordava le bellezze d’oltreoceano del grande schermo. Nel suo lungo tubino nero, aderente e impreziosito da un filo di giaietto cupo era una visione di così rara bellezza che Anton si disperò nel saperla amante di saffo, anche se si turbò immaginandola nelle imprese amorose in cui deliziava alcune delle sue amanti.
“Qui viene il bello, “disse dopo essersi ripreso “nulla. Solo un tenue aroma”.
La delusione divenne palpabile: “Come vuota. Forse che tutte le sue fantasiose teorie metafisiche, per le quali è famigerato in tutta Europa si basano su quell’inutile oggetto?”
Anton chiuse e ripose la sua reliquia, poi si sedette, calmo, quasi assente.
“Esistono aromi in grado di alterare la percezione visiva e sensoriale, questa è cosa risaputa. Ed esistono sostanze in grado di infondere a chi le assume sensazioni definite "ultraterrene", empatia verso persone, animali, piante od oggetti circostanti, come anche ansia, panico e stati passeggeri di paranoia”.
“Anche questa è cosa risaputa “. Derise Natalie Clifford Barney “Molti tra gli artisti di questa città, come di tante altre, ne fanno un uso pesante, accampando la scusa che questo delirio serve perché la loro arte, diversamente mediocre, ne acquisti forza e vigore!”
Tac! La trappola era scattata, ora Anton Holdcastle era pronto per recuperare la sua preda e inorgoglire la sua credibilità con l’adorazione di nuove, e potenti seguaci.
“Le vostre parole sono indiscutibilmente vere, mia cara amica, ma dubito fortemente che ciò che questa boccetta conteneva fosse una comune sostanza psicotropa. Studi degli archeologi tedeschi, negli anni seguenti al mio ritrovamento, dimostrarono che il “Tempio del Rosso”, il luogo nel quale avevo sottratto l’ampolla, era stato fortemente voluto da uno sciamano olmeco di nome Aztlhanpotomixi…o qualcosa del genere. A voi questo nome dirà poco o niente, ma dovete sapere che quel sacerdote, secondo le informazioni raccolta dalle rovine in decenni di studi, era famoso nella sua epoca col soprannome di Hachpamixtel: “Colui che mostra la vita dopo la morte”. Vedo lo sguardo delle signore che si accende di curiosità a queste parole. Siate serene, non siete le uniche, arrivato a questo punto della narrazione molti dei miei spettatori hanno lo stesso sguardo allibito che i vostri adorabili volti mostrano ora!”
L’aria intorno ad Anton si era condensata coi sospiri di desiderio di conoscenza. Quei salotti, e l’uomo lo sapeva bene, erano nati per momenti come quello, dove, menti che ritenevano sé stesse troppo elevate per circondarsi di persone che non fossero loro pari, aspettavano nutrimento e fonti di chiacchiere per i prossimi mesi o anni, per tentare di compensare il loro senso di disagio davanti alla miseria dell’intelletto degli altri.
“Continuate, ve ne preghiamo!” Fu l’esortazione della padrona di casa.
“Secondo alcune fonti il mistico sciamano possedeva un oggetto dai grandi poteri, col quale era in grado di mostrare ad ogni essere umano il posto nel quale avrebbe trascorso l’eternità. Sua colpa fu quella di aver schiuso quel sacro velo al re Hueyapan-Qutz. Ciò che il re vide lo sconvolse a tal punto da segregare per sempre Aztlhanpotomixi nel tempio in cui trovai la scultura, finché con la sua magia non fosse stata in grado di cambiare la sorte che il re aveva visto: quello che sarebbe avvenuto della sua anima dopo la morte. Ma non vi riuscì!”
“Volete forse dirci che il potere di quello stregone derivava dal possesso di quel piccolo vaso d’argilla?”
“Non lo dico…Lo asserisco. Ho avuto modo di testare su me stesso il potere di questo oggetto. Una notte senza luna ero sdraiato nel mio letto, stavo studiando l’esile aroma che usciva dall’interno di questo magico artefatto. La finestra era chiusa e la primavera si stava esaurendo in un quieto autunno privo di odori esterni. Mentre uno strano torpore si impadroniva di me l’essenza che usciva dal piccolo uomo di terra si faceva via via più forte e pungente, quasi offuscante. Gli occhi mi si coprirono di una brina umidiccia e biancastra e la mia mente vacillò, poi mi addormentai di colpo e sognai il sogno più terribile che uomo possa fare!
Ero nella penombra di un antico corridoio che scendeva nella pancia della terra, molta strada avevo già percorso ma altrettanti gradini si aprivano davanti a me, molti di più di quelli che la luce fioca che saturava l’ambiente potesse mostrare ai miei occhi atterriti. Il budello odorava di putrefazione, di carne morta e di mille altre nefandezze. L’aria, graveolente di decomposizione, si intensificava ad ogni gradino che meccanicamente discendevo, quasi che quel viaggio rappresentasse l’inizio del mio peggiore incubo ma che il mio corpo nulla potesse per impedirmi di percorrerlo per intero. Una luce torbida di indicibili peccati emanava dal fondo del cunicolo, risalendo pastosa; come un’immonda sirena richiamava a sé ogni cosa vivente che le si accostava ignara, afferrandola con le sue spire laide e trascinandola verso la perdizione. L’essenza dell’aria stessa era intrisa di un dolciastro sapore di corruzione; non si odorava, non si vedeva o gustava, semplicemente: si percepiva. L’anticamera dell’inferno non avrebbe potuto essere più inquietante. Il mio stomaco trasaliva e si contorceva ad ogni passo e la mia stessa razionalità sembrava dissiparsi altrettanto velocemente. Un rumore di fondo emergeva sordo, un miscuglio di imprecazioni, pianti e preghiere, di bestemmie e implorazioni, di urla di agonia e di piacere. Non ricordo quanto tempo passò prima che l’ultimo gradino si trasformasse in un pianerottolo circondato dal sasso, lungo e scuro, con solo una luce forte che trafilava da un piccolo portone avanti a me di qualche passo. Volevo fermarmi, ero atterrito…no, di più, terrorizzato. Ma le mie gambe non solo non considerarono l’idea di fare marcia indietro, ma anzi cominciarono contro la mia volontà a dirigersi verso quel varco”.
Adesso Anton Holdcastle era teso come una corda di violino e bianco come un cencio appena lavato con la lisciva, con tanto di aspetto oleoso. Sudava e contraeva con moto involontario sia l’occhio destro che l’attaccatura sinistra delle sue labbra.
“Fatemi più spazio, ve ne prego mie signore, mi manca l’aria! Grazie mie dame, ne avevo bisogno. Mi succede tutte le volte che quel ricordo si ripresenta prepotente alla mia memoria. Scusate ora, ma non voglio aggiungere altro!”
“E ci lasciate così, senza altra spiegazione, cosa avete visto oltre il varco che vi atterrisce in maniera così prepotente, impedendovi persino di respirare?”
“L’Inferno, mia signora. Un luogo di una tale bruttura e perdizione che ancora sto cercando le parole per descriverlo! Quello che è strano è che, nella mia vita non ho mai commesso colpe tanto tremende da considerare l’Averno come meta ultima della mia anima. Per questo, e per altri esperimenti che compii con alcuni vecchi amici, posso asserire che l’assegnazione del mondo che ci attende dopo la morte è assolutamente casuale!”
Inferi testo di Crisocione61
5