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Il commissario Ermete Passalacqua entrò al Dopolavoro
Ferroviario come si entra in acqua fredda: trattenendo il
fiato e sperando che finisse presto.
Il locale si zittì quel tanto che basta per notare la sua
presenza e poi riprese a respirare, più forte di prima.
Passalacqua guardò i tavoli, le carte, i bicchieri, e pensò che
lì dentro ogni oggetto fosse un potenziale reato. Scelse il
tavolo della briscola perché era il più pericoloso e lui, in
quanto commissario, sentiva di dover affrontare il peggio
subito.
«Buonasera,» disse.
«Dipende,» rispose qualcuno.
Gino Balocchi gli fece posto accanto a sé con un gesto
ampio, che rovesciò mezzo bicchiere. Era un invito e una
prova.
«Commissario,» disse Gino, «sa giocare?»
«A cosa?» chiese Passalacqua.
«A non capire,» rispose Gino. «È il gioco locale.»
Il commissario accettò di giocare. Male.
Tenendo le carte come fossero prove schiaccianti, le
studiava troppo, le rimetteva in mano, poi le rimescolava
mentalmente senza motivo. Ogni sua mossa era una
confessione.
«Ieri sera,» disse a un certo punto, «qualcuno ha visto il
morto qui?»
«No,» risposero tutti insieme.
Poi bevvero.
«Intendo dire,» insistette Passalacqua, «prima che
diventasse… così.»
«Ah,» fece Donato. «Allora sì.»
Silenzio di nuovo. Il commissario sorrise, soddisfatto. Aveva
ottenuto qualcosa. Non sapeva cosa, ma era qualcosa.
«Con chi giocava?» chiese.
«Con tutti,» disse Nello. «E contro tutti.»
Passalacqua annuì, come se avesse capito. Prese appunti su
un taccuino troppo pulito per quel posto.
Nel frattempo, Gino osservava. Il commissario beveva poco.
Sbagliava. A San Pellegrino, chi beve poco mente a se
stesso.
La partita finì. Passalacqua perse in modo clamoroso,
accusando le carte di essere sbilanciate.
«Questo tavolo pende,» disse.
«Verso la verità,» rispose Gino.
Quando il commissario se ne andò, convinto di aver fatto
progressi, Gino rimase seduto. Donato gli versò l’ultimo
bicchiere.
«Commissario in difficoltà,» disse l’oste.
«No,» rispose Gino. «Commissario fuori contesto.»
Poi aggiunse, più piano:
«Il colpevole non è chi ha vinto. È chi ha perso troppo.»
Fuori, il confine restava invisibile.
Dentro, la partita era appena cominciata davvero.