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Era una sera di Ottobre e Dino Mannini guardava fuori dalla finestra, mentre fumava la sua sigaretta. Abitava nella parte alta della città, da là poteva ammirare l’intera valle, con le luci che una ad una si accendevano. Un’autostrada sopraelevata, ormai in disuso, dominava il paesaggio. All’orizzonte improvvisamente gli apparve un puntino straordinariamente luminoso che si mosse verticalmente e lentamente verso la terra, seguito da altri meno luminosi. Che siano le Orionidi, pensò. Non ci badò troppo, era tempo di andare: si stava facendo tardi.
“Famiglio, portami il posacenere.”
Spense la sigaretta, la sua ultima di quel giorno. Voleva smettere e aveva ordinato al Famiglio di fornirgliene non più di dieci al giorno.
“Famiglio, preparami i vestiti.”
“Specificare per quale occasione”, rispose una voce robotica dalle casse.
“Cena da amici”.
Un piccolo robottino quadrato con delle ruote gli portò un abito e una camicia.
“Famiglio, qualcosa di più informale!”
Stupido programma, pensò. Subito dopo gli fu portato un maglioncino e un paio di jeans. Si vestì. Una settimana prima era stato invitato a cena dal suo amico Piero, che voleva esporgli un’importante novità. Dino di rado usciva e si era subito pentito di aver acconsentito a quell’invito. Di qualsiasi cosa si tratterà, poteva benissimo riferirla per telefono, pensava.
“Famiglio, spegni le luci e fa arrivare la mia auto”, disse ed uscì.
Aspettò qualche minuto fuori dal suo portone, brontolando per l’eccessivo tempo di attesa, poi finalmente giunse la sua vettura. Si accomodò nei sedili posteriori. “Famiglio, portami da Piero.”
“Allora, che ve ne pare?” chiese con entusiasmo Piero ai suoi ospiti Dino e Pamela.
“Davvero notevole, ma non capisco come funzioni?” rispose Pamela.
“Semplicissimo. Invece di parlare, posso comandare tramite il mio pensiero.”
“Devo dire che delle volte sono talmente stanco che faccio anche fatica a parlare. Deve essere comodissimo”, intervenne Dino.
Le luci della sala calarono di intensità e una musica jazz cominciò a suonare di sottofondo.
“Molto comodo”, convenne Piero.
“Posso provarlo?” chiese speranzosa Pamela.
“Mi dispiace deluderti, ma non è possibile. Adesso vi spiego e capirete perché il Famiglio è bello che superato.”
“Ha un nome?”, chiese Dino, mentre nascondeva a fatica una certa invidia.
“Si chiama Aki, viene dal giappone. E non devo ripetere, o meglio pensare, ogni volta il suo nome per dargli degli ordini.”
“Stupefacente”, commentò Pamela.
“Non siete stanchi di ripetere ogni volta Famiglio prima di ogni richiesta?”
“Beh, sì”, ammise Dino. “Ma come fa a distinguere e capire se si tratta di un pensiero generico o meno? Come fai a sapere che non legga continuamente la tua mente?”
“Vedete, è bastato installarmi un microchip sottocutaneo. Attraverso le onde…”
“Deve averti fatto male”, intervenne Pamela.
“Assolutamente no. E’ stato rapido e indolore. Non serve neanche l’anestesia.”
“Stavi dicendo?” domandò Dino, impaziente di sapere in quale modo fosse possibile una cosa del genere.
“Dunque, attraverso l’analisi delle mie onde celebrari, Aki sa esattamente quando attivarsi. Tecnologia nipponica.”
“Sono sbalordita. Quante fatiche ci risparmierebbe”, disse con entusiamo Pamela.
“E sa esattamente anche quello che desidero. Non c’è bisogno di ripetere nulla, non c’è alcun rischio di un fraintendimento.”
Si alzò il volume della musica Jazz, mentre un robot dalle forme umane portava tre bicchieri di un ottimo scotch.
“Vedete, esattamente come avevo richiesto”, si compiacque Piero.
“Straordinario”, sentenziò Dino, pensando a quanto effettivamente fosse superiore al Famiglio. Quel coso si deve far ridire sempre tutto, pensò.
Conclusa la serata Dino si recò alla sua auto. Era esausto, complice qualche bicchiere di troppo.
Portami a casa, pensò. L’auto non partiva. Dino stava per addormentarsi. Doveva trovare la forza di parlare, l’ultima fatica della giornata. Famiglio, portami a casa, credette di dire, ma la vettura era sempre lì piantata. Gli occhi si stavano chiudendo, quando si ridestò a causa di alcuni rumori.
“Famiglio, parti!”
L’auto si accese. “Specificare la meta.”
“Portami a casa”, rispose nervosamente.
“Famiglio, la colazione!” urlò Dino dal suo letto.
“Specificare”, rispose la voce dalla cassa.
Questo con Aki non sarebbe successo, pensò con grande disappunto.
Una nuova giornata era appena incominciata e già gli veniva richiesto uno sforzo inutile. Precisò il suo ordine, dopodichè fece aprire la finestra ed accendere la sua televisione in camera. Mi sento sempre più spossato e stanco, pensò preoccupato Dino, mentre la voce dalla cassa gli ricordava del turno di lavoro pomeridiano.
Dino Mannini lavorava all’anagrafe, ma da qualche mese non doveva più recarsi in ufficio. “Può benissimo svolgere quel lavoro anche da casa”, gli avevano detto.
“Famiglio, svegliami dieci minuti prima dell’inizio del turno”, ordinò. Aveva bisogno di altro riposo. Piero è stato davvero fortunato, pensò prima di riaddormentarsi con la televisione lasciata accesa. Piero non aveva più un lavoro, quel posto di lavoro era stato soppresso o meglio sostituito dalla tecnologia e dal progresso; in cambio il governo gli forniva una cospiqua indennità perenne. Una vera pacchia, secondo il pensiero di Dino.
Alla fine di quel turno di lavoro era sfinito, nonostante fosse di sole due ore. Si sdraiò sul divano, era ancora in pigiama. “Famiglio, portami da bere qualcosa di fresco”, disse con un filo di voce. Dalla cucina arrivò un piccolo frigo, che si fermò ai piedi del divano. Il Famiglio non regge proprio il confronto, pensava Dino, mentre sorseggiava la sua lattina di birra. Piero sì che è servito come si deve. Eppure quando anni e anni fa fece installare il Famiglio, lo credette insuperabile. “Non dovrete fare più nessuna fatica inutile. Per ogni cosa ci sarà il Famiglio al vostro servizio”, recitava la reclame. Allora perché aveva dovuto aprirsi la lattina da solo?
“Sono le dodici. Promemoria: tv”, disse la voce dalla cassa. Splendido, tra poco inizia il programma, pensò Dino. “Famiglio, accendi la tv della sala.”
Ormai era quasi un anno che trasmettevano soltanto delle repliche, ma a Dino poco importava. Si trattava di un talk show e quel giorno sarebbe stato il turno di una famosa attrice americana, intervistata dal conduttore Jason Taverner. Un uomo da ammirare, riteneva Dino. Seppur fosse una puntata già vista diverse volte, Dino era come incantato; rimase con gli occhi incollati sullo schermo per tutte le quattro ore della trasmissione. A fine puntata, come di consueto, voleva commentare il tutto con il suo amico Piero.
“Famiglio, chiama Piero.”
“Chiamata incompatibile”, rispose la voce.
“Famiglio, chiama Piero subito”, insistette Dino.
“Chiamata incompatibile.”
Deve essere per il suo nuovo programma, riflettè.
Ripensò a quella sera e pensò a Pamela. Era bella come la ricordava. La dovrei chiamare, si chiese. Ma poi cosa accadrebbe? Sarei costretto ad uscire, a parlare, a trovare il modo di divertirla. Un’impresa ardua che andava oltre le sue capacità e forse neanche ne valeva la pena, concluse. Si affacciò meditabondo dalla sua finestra. Ancora quelle cose luminose, pensò.
“Famiglio, cosa sono?”
“Specificare.”
“Che cosa diavolo sono quei puntini luminosi che ho appena visto?”
“Mi è impossibile sapere cosa ha appena visto. Si prega di descrivere in modo accurato.”
“Va all’inferno!”
Ci vorrebbe Aki, tutto sarebbe più facile e più semplice. Aki mi avrebbe già fornito una risposta, non come Famiglio. La mia vita sarebbe senz’altro migliore, ritenne Dino.
“Famiglio”, fece un lungo respiro, nonostante tutto lo aveva servito dignitosamente, “come posso installare Aki?”
Una settimana dopo Aki era già installato e perfettamente funzionante. Aveva ragione Piero: il chip non gli aveva causato alcun dolore. “Le costerà addirittura meno del suo precedente programma”, gli aveva riferito l’installatore, ma questo a Dino poco importava. Da tempo non si occupava dei conti e delle proprie finanze. Ormai era tutto automatizzato: a lui bastava sapere di avere uno stipendio, un’entrata ( neanche la quantità ) e al resto pensava il Famiglio. Ora sarebbe stato il turno di Aki. Da quel punto di vista nulla sarebbe cambiato.
“Aki, alza la temperatura di qualche grado”, fu il suo primo ordine. Una voce nella sua mente ricordò che non doveva e non serviva usare la voce, sforzando le corde vocali, ma bastava il solo pensiero. Dino Mannini sorrise. Questo è davvero il futuro, pensò. Ogni cosa lo sbalordiva. La casa non gli era mai sembrata così splendida, anche il cibo era migliore. Per non parlare della qualità dei cocktail e il modo in cui venivano serviti. Devo invitare Piero e fargli vedere che anche a casa Mannini si vive da signori, decise .
Con la mente ordinò ad Aki di metterlo in contatto con il suo amico.
“Piero, mio caro, indovina che nuova ti porto”, disse con entusiasmo Dino Mannini.
“Anche te hai Aki adesso. E’ fantastico, non trovi?” rispose la voce di Piero nella sua mente. Non serve parlare neanche stando al telefono, intuì felicemente Dino. Quindi gli chiese se avesse visto le ultime puntate del talk show e se volesse essere suo ospite una di quelle sere. Piero rispose che naturalmente non si perdeva un solo minuto di quella trasmissione e che si divertiva a commentarla insieme ad Aki. “E’ anche un grande e preparato conversatore”, affermò.
“Riguardo l’invito?” lo incalzò Dino.
“Riguardo l’invito temo di dover declinare. Sono impossibilitato. Ho un principio di gotta, la malattia dei ricchi”, rispose Piero.
Dino poteva percepire una nota di soddisfazione nella voce di Piero.
“Siamo come degli aristocratici, dei nobili con un esercito di servitori”, aggiunse poi.
Fu quella l’ultima volta che Dino Mannini conversò con il suo amico Piero. Aveva ragione: Aki era davvero un ottimo interlocutore, imparagonabile con chiunque. Con Aki raramente veniva contraddetto, anzi mai e inoltre poteva variare a suo piacimento i diversi argomenti.
La gotta? Siamo davvero come degli aristocratici? si chiedeva Dino. Non per quanto lo riguardava, ritenne: Dino Mannini doveva ancora lavorare, doveva ancora programmare la sua giornata in base a quei dannati turni. E dopo ogni turno era sempre più stanco. Si chiedeva quando anche il suo lavoro sarebbe stato sostisuito da qualche macchina. Se lo chiedeva di continuo, lo chiedeva ad Aki. Sentiva che non poteva godere a pieno di quella vita, finchè era costretto a lavorare. Aki gli rispondeva esattamente quello che voleva sentire, ovvero che era un’ingiustizia, ma che presto le cose si sarebbero sistemate. E così fu.
“C’è un messaggio per lei”, gli comunicò un giorno la voce di Aki, mentre si stava riposando sul divano. “Vuole che glielo legga?” chiese.
“Fammi un sunto”, ordinò Dino Mannini.
Il messaggio portava notizie ottime: il suo lavoro era concluso. Sia ringraziato il progresso, pensava Dino, mentre ordinava ad Aki di portare un bicchiere di spumante.
Finalmente era totalmente padrone del suo tempo, finalmente si sentiva veramente un signore. Ora non aveva più niente da invidiare a Piero. Partì una musica trionfante, proprio quella che desiderava e non ci fu bisogno di alcuna specificazione. Stava andando tutto nel verso giusto. Ripensò ai suoi timori di dover lavorare per sempre, di dover avere per sempre il Famiglio e pianse di gioia.
Dino Mannini trascorreva le giornate tra il letto e il divano, anche se doveva ancora alzarsi per andare al bagno. Si chiedeva quando avrebbero effettuato un aggiornamento a riguardo; secondo Aki molto presto. Oramai non guardava più dalla finestra, non gli importava più nulla, a parte il talk show di Jason Taverner, a cui avevano dedicato un canale 24 ore su 24. La sua comodità era sopra a tutto.
Diversi anni passarono, quando Dino Mannini, diventato obeso, era pronto ad affrontare l’ennesima monotona giornata, ma di quella monotonia non si sarebbe mai stancato.
“Aiutami ad alzarmi da letto”, ordinò con il pensiero ad Aki. Ma non accadde nulla.
“Aiutami ad alzarmi!” continuava a pensare insistentemente.
Starò sognando, riflettè. Gli era inimmaginabile una cosa del genere: Aki, il culmine del progresso, non poteva avere problemi. Rimase in attesa, sperando che la questione si risolvesse da sola, ma invano. Inutilmente ordinò ad Aki di rimettersi in funzione e di essere operativo al suo servizio.
Dino Mannini provò allora a scendere da letto soltanto con le sue forze, ma cadde rovinosamente sul pavimento. Era molto dolorante. Giacque per ore su quel freddo pavimento; provò a gridare, a chiedere aiuto, ma non riusciva più a pronunciare alcuna parola. Si concentrò, ma produsse soltanto degli strani versi. Nessuno poteva arrivare in suo soccorso, e in fondo chi sarebbe dovuto arrivare? I suoi vicini? Non li aveva mai visti, non sapeva neanche se abitasse ancora qualcuno negli appartamenti limitrofi.
Le ore divennero giorni, senza acqua e senza cibo. Dino Mannini era allo stremo. Non avrei mai dovuto lasciare Famiglio, pensava, Aki mi ha abbandonato. Sentiva che stava arrivando la sua fine, quando la porta della sua camera si aprì. Sono salvo, pensò. Due esseri minuscoli entrarono. Non erano umani. Allora è davvero un sogno, si convinse Dino.
“Questo è ancora vivo, ma non per molto”, percepì Dino nella sua testa. Riusciva a sentire e capire quello che comunicavano tra loro. Come poteva essere? Chi erano costoro? Uno dei due si ritirò, lasciando l’altro solo nella stanza con Dino Mannini. Negli occhi di Dino si poteva leggere la paura e l’orrore.
“Non temere, presto sarà finita”, comunicò con freddezza quell’essere a Dino.
“Chi siete? Cosa volete? Uscite dalla mia mente”, intimò Dino con le sue ultime energie mentali.
“Vi abbiamo reso apatici, pigri e inoffensivi con la nostra tecnologia: è arrivato il tempo di raccogliere. Credevi davvero che la vostra razza potesse giungere ad un tale progresso?”
Riescono a comunicare con me grazie al chip, intuì amaramente Dino. Ricordò quelle luci che tempo fa vide dalla finestra: dovevano essere loro.
“Cosa mi farete?” chiese.
“Non faremo proprio nulla. Ti abbiamo fatto vivere da signore, come piaceva a te, ed ora ti guarderemo morire.”
Dino Mannini chiuse gli occhi. Era morto e insieme a lui anche gli altri abitanti della Terra. Il pianeta aveva dei nuovi ospiti.